Massimo Prati – Genoani illustri

Lo scrittore genovese passa in rassegna i rossoblù: Sandro Pertini, Giuliano Montaldo, Vittorio Gassman, Emanuele Luzzati, Dado Moroni e Gianni Brera


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Penso di non esagerare se dico che il numero di genoani illustri è tale che probabilmente si potrebbe scrivere un libro intero, se non addirittura un’intera enciclopedia, solo su questo argomento.

Storicamente il Genoa ha saputo unire il sacro al profano e nella nostra città, nello stesso periodo, si poteva trovare il cardinale ed il console dei portuali divisi su temi politici, etici o religiosi, ma uniti dalla comune passione per il Vecchio Grifo.

Di genoani illustri ce ne sono stati dunque tantissimi ; personalità che si sono distinte nei campi della politica, della letteratura, del cinema, della pittura, del teatro e del giornalismo. Ma, per amore di sintesi, mi limiterò a citare un numero ristretto di casi. Pochi esempi, ma di grande spessore, personaggi che sicuramente hanno saputo eccellere nei propri campi di attività: Sandro Pertini, Giuliano Montaldo, Vittorio Gassman, Emanuele Luzzati, Dado Moroni e Gianni Brera.

Sandro Pertini, dirigente socialista, partigiano e militante antifascista, è stato probabilmente il più simpatico Presidente nella storia della Repubblica. Genovese d’adozione, per avere vissuto e lavorato a lungo nella nostra città, dove tra l’altro fu direttore del quotidiano Il Lavoro, dal ’47 al ‘68.

Genovese d’adozione ma savonese di nascita, anzi savonese di un comune montano: di San Giovanni di Stella, per la precisione, ridente paesino sulle pendici del Beigua.

A volte mi viene da pensare che la geografia ed il paesaggio possono addirittura condizionare il pensiero politico. Il Beigua è un monte che sfiora i 1300 metri, a picco sul mare, e dalla sua vetta, nelle belle giornate invernali, guardando a sud, si può talvolta ammirare la Corsica, mentre, con una rotazione di 180 gradi, volgendosi a nord, si possono chiaramente distinguere le cime alpine del Monviso, del Monte Rosa e del Cervino, vette di un arco montuoso che segna il confine con Svizzera e Francia. A volte mi viene da pensare che se nasci in mezzo alla nebbia, e non vedi aldilà del tuo naso, non puoi che avere anguste e ristrette vedute. Ma se il tuo habitat ti offre un orizzonte che spazia su visuali di quattro o cinquencento chilometri, tra terra e mare : dalle isole del Mediterraneo centrale alle catene alpine di Provenza, Savoia e Vallese, allora non puoi che essere un amante della libertà. Forse l’insofferenza di Sandro Pertini verso la dittatura fascista, prima ancora che alla sua formazione politica, va ricondotta al luogo dove è nato e cresciuto.

Ma il vecchio presidente della Repubblica, oltre che amante di libertà è stato anche amante di calcio. Di lui è memorabile la presenza in tribuna, ai mondiali di Spagna e, soprattutto, il gesto della sua mano al terzo gol di Altobelli, come a dire: « Ormai non ci prendono più », oppure: «Non c’è niente da fare, non ce n’è più per nessuno ».

Di Pertini, però, in quegli anni si ricorda anche una partecipazione al Ferraris, durante una partita, dei blucerchiati, contro ll Milan di Baresi, Tassotti e Maldini. E al giornalista che gli aveva chiesto se la sua presenza, in quella partita, fosse un segno di tifo per la Sampdoria, Pertini rispose che lui tifava Genoa sin da ragazzo.

Giuliano Montaldo, invece, è un eccellente regista, oltre che persona dalla forte carica umana. Io ho iniziato a conoscere i suoi lavori da ragazzino, nel 1976. Avevo tredici anni e andavo in terza media. Erano anni in cui si usava portare le scolaresche a vedere dei film dal forte valore civile. E con l’intera scuola andai a vedere un film da lui diretto, «L’Agnese Va a Morire», storia di Resistenza, tratta dal libro di una scrittrice e partigiana emiliana. E, forse, se si fosse mantenuta quella bella abitudine di portare i ragazzi a vedere film sugli orrori di un passato che, tutto sommato, non è poi così lontano, probabilmente oggi in Italia non avremmo avuto i casi di squilibrati che vanno in giro armati a sparare contro i migranti.

 

Ma, il film di Montaldo che ricordo con maggior emozione è quello su Sacco e Vanzetti, magistralmente interpretato da Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté. Un film la cui colonna sonora comprende la ballata di Ennio Morricone e Joan Baez. E anche se non è facile a dirsi, perché la canzone in effetti è molto bella, più ancora di quella ballata, per me è memorabile un altro testo legato a quella vicenda:

 

«Noi protestiamo oggi, come protestavamo ieri e protesteremo sempre per le nostre libertà. Se cessai il mio sciopero della fame, come io feci, fu perché in me non era rimasta alcuna ombra di vita ed io scelsi quella forma di protesta per reclamare la vita e non la morte. Il mio sacrificio era animato dal desiderio, vivissimo che era in me, per tornare a stringere tra le mie braccia la tua piccola, cara, sorellina Ines, tua madre, te e tutti i miei cari amici e compagni di vita, non di morte.

 

Per ciò, figlio, la vita di oggi torna calma e tranquilla a rianimare il mio povero corpo, se pure lo spirito rimane senza orizzonte, sperduto tra tetre visioni di morte. Ricordati anche di ciò figlio mio. Non dimenticare giammai, Dante, ogniqualvolta nella vita sarai felice di non essere egoista: dividi sempre le tue gioie con quelli più infelici, più poveri, più deboli e non essere mai sordo verso coloro che domandano soccorso. Aiuta i perseguitati e le vittime perché essi saranno i tuoi migliori amici, essi sono i compagni che lottano e cadono, come tuo padre e Bartolomeo lottarono e oggi cadono per avere reclamato felicità e libertà, per tutte le povere cenciose folle del lavoro. In questa lotta per la vita, tu troverai gioia e soddisfazione, e sarai amato dai tuoi simili»

Non ho voluto verificare, e ho preferito affidarmi ai ricordi. Ma, mi sembra di ricordare che questo discorso, una specie di testamento morale di Nicola Sacco al proprio figlio, non sia rievocato nel film del regista genovese. Mi sembra infatti di ricordare una dignitosa dichiarazione alla corte dei due libertari italiani, durante il processo, però non ho ricordo di alcuna lettera di Sacco e Vanzetti, ai familiari, nella parte finale del film.

Ma, anche se non ricordo con precisione questo particolare, in relazione alla trama del film, penso che se sono venuto a conoscenza di questa bella testimonianza, questo sia stato a seguito di una mia volontà di approfondimento, che nasceva sicuramente dalla visione del film su Sacco e Vanzetti, e di questo sarò eternamente grato a Giuliano Montaldo.

Si è genoani a tutto tondo, senza separazione tra vita professionale, dimensione privata, contesto familiare e rete di conoscenze. Un genoano sente sempre il bisogno di palesare la sua genoanità : è l’orgoglio di un senso d’appartenenza che non ha eguali al mondo. E, da questo punto di vista, anche un uomo colto e dai modi eleganti, come Giuliano Montaldo, non fa eccezione. Per questo, quando fu ospite di un celebre conduttore televisivo (famoso anche per i pessimi gusti calcistici e le scelte di tifo), alla fine dell’intervista e in chiusura di trasmissione, il nostro caro regista tirò fuori la sciarpa del Genoa. Ostentare in diretta gli amati colori al rivale di basso rango, calcisticamente parlando: un gesto di attaccamento, un gesto di fierezza e passione: un gesto da Genoa. E questa è la seconda cosa di cui sarò eternamente grato a Giuliano Montaldo.

Nel 1993, in occasione del centenario del Grifo, Giuliano Montaldo aveva delineato l’idea di film sulla storia del Genoa, pensando a Vittorio Gassman come protagonista. Si trattò di un progetto di cui parlarono anche diversi giornali, dalla Gazzetta dello Sport a Repubblica. L’idea della trama era che un nonno avrebbe raccontato la storia del Genoa al suo nipotino. E Gassman, naturalmente, avrebbe interpretato il ruolo del nonno. Gassman è stato un grande attore di cinema e di teatro, capace di interpretare ruoli difficili e impegnativi, a volte talmente strani da risultare improbabili. Nel caso del film del Genoa, invece, avrebbe dovuto interpretare un ruolo, tutto sommato, vicino alla realtà. Questo perché, com’è noto, il grande attore era anche un tifoso del Genoa.

A questo proposito, ricordo di avere visto una foto, risalente forse agli anni Cinquanta, in cui il celebre attore riceveva un riconoscimento ufficiale del Genoa dalle mani del grande Carapellese.

Ma l’aneddoto, per me più piacevole, di Gassman genoano è un mio ricordo personale, che risale ai primi anni Ottanta. Stavo guardando la televisione quando, in un collegamento da Roma, mi apparve Vittorio Gassman. Il servizio era su una partita all’Olimpico, in occasione di un match dei giallorossi e l’attore era in tribuna. Al giornalista che gli chiedeva se fosse un romanista, l’attore rispose: «No, ahimè, son Genoano. E pur con magre soddisfazioni».

E in quel «e pur con magre soddisfazioni» c’era l’acume e lo spirito del grande artista, avvezzo a giocare con le parole e, al tempo stesso, c’era anche la quintessenza del tifo genoano, perché si è genoani sempre e comunque : a prescindere appunto dalle «pur magre soddisfazioni».

Nell’accingermi a parlare del poeta Edoardo Sanguineti, grande poeta italiano della seconda metà del Novecento, mi viene da dire che, nell’universo del tifo genoano, tutto si tiene e tutto torna, in un susseguirsi di corsi e ricorsi, ed una personalità ne richiama un’altra alla memoria: Montaldo, col suo progetto di film, citato in queste pagine, ci ha portato a parlare di Gassman; Sanguineti invece, come in un giro dell’oca, in cui si può passare da un casella ad un’altra (avanzando verso il traguardo oppure tornando all’inizio), ci riporta indietro a Pertini, perché entrambi furono firme autorevoli del quotidiano Il Lavoro, seppure firme di periodi abbastanza distanti tra loro.

Ma, questo grande poeta, nelle prossime pagine, ci permetterà di passare anche al personaggio seguente: lo scenografo e illustratore Emanuele Luzzati, perché, come vedremo, nel 1993 questi due artisti parteciparono ad un progetto comune, legato al centenario del Genoa. Progetto che, in quel caso, a differenza del film di Montaldo, fu realizzato davvero.

Edoardo Sanguineti era cresciuto a Torino ma era levantino di nascita, essendo un tigullino di Chiavari. Il Tigullio è una zona del Levante della provincia di Genova che ha forti legami col Genoa. In quella parte della nostra regione, tra Rapallo e Riva Trigoso, sono nati giocatori che hanno fatto la storia del Grifo : da Nela a Baveni, passando per Becattini.

E, anche a causa di questi importanti fattori, in quella parte della nostra regione, la presenza di tifosi del Grifo è solida e capillare. Chissà, forse fu proprio il richiamo di giocatori dello stampo di Becattini che portò Sanguineti a diventare genoano. La mia è una semplice supposizione di cui non sono per niente sicuro. Ma leva d’appartenenza e prossimità territoriale, mi fanno pensare che potrei anche essere andato vicino alla realtà. La cosa certa, invece, è che il rapporto tra il Genoa e questo artista, avrà dei risvolti creativi.

Se apriamo il libro, di cui si è già accennato, uscito appunto per i cent’anni del Grifo, in una pagina, sul lato sinistro, vedremo una foto di Spensley, immortalato nello studio del suo appartamento; mentre nell’altra pagina, sul lato destro, troveremo una poesia di Sanguineti che da quella foto del medico inglese trasse spunto e ispirazione.

                                                     Preludio

 

                     Con gli occhi caldi, qui, del Dottor Spensley (se metto insieme e preistoria

                     e protostoria e storia), un secolo calcistico mi scruta : (sta mezzo abbandonato,

                     le gambe accavallate: trascura un volumone, aperto al suo fianco, per guardarmi,

                     e tutti gli altri libri, schierati là negli scaffali, fitti : e si regge la testa,

                    con una mano, taciturno, ormai) :

                   la vecchia sfera gira sempre, tra i nostri piedi,

                  inquieta, accarezzata dai venti marini : (e, sotto, i nostri piedi, ruota ancora

                  la sfera del pianeta) :

                 fotografie superstiti (piene di tempo, popolate di morti

               noti e ignoti) additano, per frammenti di lampo, questa lunga leggenda

               è rossa, è blu

                                                              Edoardo Sanguineti

Maggio 1992

 

Ad una prima occhiata superficiale, l’impressione è che i versi di questa poesia siano stati quasi disposti a caso. Se si dà un rapido sguardo d’insieme alla poesia, si rimane infatti colpiti per la successione assimetrica delle parole, alternate da spazi vuoti, e si ha quasi una sensazione d’incompletezza. Ma, in quel caos apparente, in realtà c’è coerenza e coesione, e individuando una serie di nessi, allora il disordine si ricompone.

 

Gia, il titolo di questa poesia può essere, di per sé, aperto a più suggestioni : preludio come presentazione, di una figura fondamentale nella storia del Genoa; preludio come indizio di qualcosa che succederà : per esempio, la nascita di una leggenda ; preludio come semplice inizio : James Spensley il pioniere, l’iniziatore, il padre del calcio italiano; preludio, infine, riferito alla musica, come introduzione,   come se parlare di Genoa fosse la stessa cosa che assistere ad concerto di musica classica.

Ma ciò che colpisce è soprattutto il linguaggio utilizzato. Un linguaggio a tratti scientifico, elaborato, dal registro elevato, basti pensare a « Protostoria ». E la scelta dei termini non è certo casuale : Sanguineti, con il suo gusto del paradosso, amava dire che la poesia è l’arte di complicare il discorso.

Ma, al tempo stesso, in altri passaggi il linguaggio accantona la formalità per far trasparire calore umano : gli occhi del medico inglese non sono semplici occhi ma sono gli occhi « caldi » del Dottor Spensley. E tra Spensley e il poeta è come se ci fosse un contatto visivo da cui, magicamente, si materializzano cent’anni di calcio italiano : « con gli occhi caldi del Dottor Spensley..  ..un secolo di calcio mi scruta ».

Nella poetica di Sanguineti, innovazione e tradizione non devono necessariamente porsi in antitesi : si può avere un approccio innovativo rispetto al linguaggio ed mantenere un legame ideale con la tradizione. Sanguineti, infatti, diceva che il compito del poeta era quello di trattare la lingua comune con la stessa intensità della lingua della tradizione, e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita reale. E quello del contatto visivo, per esempio, da cui scaturisce passione, è un tema classico del Dolce Stil Novo e, più in generale, della nostra poesia del Duecento e del Trecento.

Contatto visivo, tra l’altro, che si ripropone di nuovo, poco più avanti, quando il James Spensley della poesia « trascura un volumone », che nella foto è al suo fianco, per continuare a guardare il poeta.

Mentre, nei versi seguenti, assistiamo ad una sovrapposizione e compenetrazione d’immagini. Il mappamondo che si vede sullo sfondo della foto, nello studio del Dottor Spensley, richiama alla mente un vero pianeta ma, nello stesso tempo, per forma e dimensioni rievoca anche un vecchio pallone, che però – agli occhi del poeta – è simbolo d’inquietudine : « la vecchia sfera gira sempre, tra i nostri piedi, inquieta ». Pallone di calcio, tra l’altro, collocato in un contesto climatico familiare a noi genovesi, determinato dalla presenza della brezza marina : « la vecchia sfera gira sempre, tra i nostri piedi, inquieta, accarezzata dai venti marini e sotto i nostri piedi ruota ancora la sfera del pianeta».

Sono versi che ci danno il quadro di una situazione paradossale : all’apparenza dinamica ma statica nella sua essenza, poiché pur se eternamente in movimento, perennemente immutabile: tutto, infatti  «gira sempre» e «ruota ancora», come in un meccanismo perpetuo. Sono versi che costituiscono ulteriormente un gioco di paradossi, basati sul rapporto tra l’immensamente piccolo: l’uomo o il pallone e l’immensamente grande: l’universo o il pianeta. Quest’ultimo, ovviamente, sovrasta per grandezza pallone e uomo; eppure, a sua volta, dall’uomo è sovrastato, perché in qualità di esseri umani, per quanto piccoli, il pianeta ce lo troviamo al di sotto dei nostri piedi: «e, sotto i nostri piedi, ruota ancora la sfera del pianeta». Solitamente «tenere sotto» indica capacità di controllo o volontà di dominio, da cui appunto i paradossi di cui parlavo.

Ma la foto di Spensley non è la foto di un semplice e singolo essere umano. È la foto di un pioniere del calcio, che fa parte della mitica storia di un mitico club. E quella foto si ricollega ad una miriade di altre foto. Fa parte dell’album della nostra famiglia, un racconto in cui compaiono altri interpreti con la nostra casacca; istantanee piene di storia, cioè «piene di tempo».  Istantanee che «ci additano per frammenti di lampo», foto cioè che hanno immortalato un momento fugace, della durata di un lampo. Ma foto che sono come tessere di un mosaico, e che – se ricomposte in un quadro d’insieme – ci «additano», vale a dire ci indicano o, meglio ancora, ci mostrano lo sviluppo di una leggenda. Una leggenda che, vale la pena di ribadirlo, si tinge di Rosso e di Blu.

E, alla fine di questa poesia, non ci resta che un sentimento di gratitudine verso James Spensley, per essere stato fonte d’ispirazione. Ma, in questo caso, un grazie ancor più grande anche al nostro poeta che ha reso omaggio alla storia del nostro club.

Il libro del centenario registrò anche il contributo di Emanuele Luzzati, autore di una bellissima copertina, in cui si può notare un soggetto dai tipici tratti che hanno da sempre contrassegnato l’artista. Nella copertina di questo libro possiamo infatti vedere un giocatore ritratto alla vecchia maniera, vestito di rosso e di blu e, sullo sfondo, il porto di una Genova di fine Ottocento, con i bastimenti, i suoi piroscafi ed una miriade di barche e di chiatte, che riempiono lo spazio acqueo tra le calate e la diga.

Emanuele Luzzati è stato un celebre illustratore e scenografo, candidato due volte al Premio Oscar, nel 1965 e nel 1973, per il suo pregevole contributo nel film di animazione. Nato a Genova, il 3 giugno del 1921, formatosi in Svizzera, e più precisamente alla Scuola di Belle Arti a Losanna, dal 1940 al 194, Luzzati nel corso della sua carriera, ha collaborato con La Scala di Milano, il London Festival Ballet, la Chicago Opera House e la Staatsoper di Vienna.

Stiamo parlando di un artista che ha attraversato diverse forme espressive nel tempo: la scenografia, l’illustrazione, la pittura e il cartone animato. Il suo tratto è immediatamente riconoscibile per l’uso di tecniche miste: il collage, la matita, la tempera, ma anche la china. E le sue figure, come i suoi disegni, hanno le caratteristiche del disegno infantile che nessun artista, forse, aveva mai utilizzato prima di lui, perlomeno sistematicamente. Altro suo segno caratteristico è che gran parte della sua produzione è basata su materiali «poveri», materiali «di scarto».

Sono stato spinto ad inserire Luzzati in questa mia panoramica di tifosi illustri dalle dichiarazioni di un mio caro amico che, avendo conosciuto personalmente l’artista genovese, mi ha parlato di lui come di un tifoso genoano. In realtà, nelle mie ricerche non sono riuscito a trovare conferme della fede rossoblù di questa figura importante dell’arte e della cultura del nostro paese.

Ma, sia quel che sia, resta il fatto che Luzzati partecipò ad un progetto artistico per il centenario del Genoa. Ed il suo contributo ad un tale evento merita, già di per sé, il suo l’inserimento nella lista dei grandi artisti di Genova che si sono legati in modo indelebile alle vicende del nostro club.

A questo punto, possiamo abbandonare le arti figurative per passare alla musica. Se dici jazz a Genova, dici Dado Moroni, un grande del jazz a livello mondiale, ma anche un grande tifoso del Genoa.

Il jazz a Genova ebbe una prima tappa importante negli anni Trenta. Erano gli anni in cui imperversavano le band di Count Basie e di Duke Ellington, ed altri ancora. Negli Stati Uniti avevano le orchestre di Benny Goodman e di Glenn Miller, da noi arrivava il ritmo Swing di Natalino Otto, che faceva la spola a bordo dei giganti del mare, tra la Lanterna e la Grande Mela.

Poi, ci fu il periodo Bebop di Dizzie Gillespie e Charlie Parker. Uno stile di jazz che a Genova arrivò con le navi marines, alla fine del conflitto mondiale.

In seguito, dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta ci fu il periodo Free Jazz, di musicisti come Ornette Coleman; stile di musica coinciso, nella nostra città, con la nascita del Louisiana Jazz Club.

Il Louisiana è probabilmente il locale di musica jazz più longevo della nostra penisola. Ad esso sono associati i concerti dei grandi nomi del jazz americano, Chet Baker, Bobby Durham, Clark Terry e Joe Lovano; ma ad esso sono anche associati i concerti dei grandi esponenti del jazz nostrano: da Gianni Basso a Giorgio Glasini, da Enrico Rava a Lino Patruno.

Nei primi anni Ottanta mi capitò di andare ad un concerto di musica jazz in un locale di Amsterdam: l’Alto Jazz Club vicino a Leidseplein che, per motivi diversi, insieme al Ronnie Scott’s di Soho, a Londra, frequentato da me nello stesso periodo, è il jazz club straniero che ricordo piú volentieri. Quello londinese era un palco che colpiva per status, prestigio e dimensioni. Il club olandese, invece, era un locale piccolo, per  non dire angusto, che a malapena poteva accogliere trenta persone, ma era comunque un locale dall’atmosfera calda e accogliente, frequentato da musicisti di grande valore.

Il vantaggio di un club piccolo, come quello olandese, era che nelle pause ti potevi trovare al banco a bere col sassofonista o col batterista. Quel giorno, mi ritrovai a chiacchierare con l’intera band. Non era gente famosa ma erano tutti professionisti, con anni di studio sulle spalle, usciti dal conservatorio di Amsterdam o dai conservatori di qualche altra città olandese.

Quando spiegai che ero di Genova, mi dissero subito che conoscevano bene la mia città. « A Genova abbiamo anche suonato », mi disse uno di loro, e poi continuò precisando : «  in un locale molto importante : il Lousiana Jazz Club ».

Questa era la reputazione, e credo sia ancora, dello storico club genovese : un santuario del musica jazz conosciuto dai musicisti di tutto il mondo.

A Genova, come dicevo, se dici jazz dici Dado Moroni, un pianista che ho avuto il piacere di sentire suonare dal vivo venti anni fa, e fu memorabile farsi rapire dai virtuosismi e dalla magia delle sue esecuzioni. Non per niente, Dado Moroni è un pianista che ha collaborato con grandi esponenti della musica jazz, da Clark Terry a Freddie Hubbard, da Ray Brown a Oscar Peterson.

Ma, aldilà della musica jazz, Dado Moroni è anche un uomo capace di scrivere altre originali composizioni. È un uomo, per esempio, capace di scrivere una lettera dai toni caldi e toccanti per il Grifone. La lettera, per chi fosse interessato, è vibile al pubblico, nel Museo della Storia del Genoa, in una sezione dedicata ai grandi del jazz, del rock e del pop, o della canzone d’autore, che, come lui, fanno parte della nostra tifoseria.

Reso il tributo ad un grande del jazz, possiamo considerare conclusa la serie di personaggi genoani di Genova e della Liguria. Finora, infatti, abbiamo parlato di tifosi illustri nati nella nostra città, come Gassman, Montaldo, Luzzati e Moroni, o di altri ancora nati nel Ponente, o nel Levante, della nostra regione, come il chiavarese Sanguineti e il savonese Pertini. Nel concludere la panoramica, non ci resta che citare un famoso tifoso «foresto», cioè Gianni Brera, brillante e arguto giornalista sportivo, originario della provincia pavese, anche se legato sentimentalmente alle Cinque Terre, ed in particolare a Monterosso.

Gianni Brera non era dunque legato al Genoa per motivi strettamente «territoriali», ma apparteneva a quelle generazioni di uomini, nati nei primi due decenni del Novecento, come ad esempio l’attore Ernesto Calindri, per cui il Genoa esercitava un fascino in qualche modo irresistibile.

Brera era famoso per la prosa vivace e colorita dei suoi articoli e per la sua capacità di attribuire ai calciatori soprannomi entrati a far parte del lessico del calcio italiano. Credo che a lui si debbano le invenzioni di «Bonimba» e «Puliclone», riferite rispettivamente a Boninsegna e a Pulici. A lui si deve anche la definizione del Grifo come «Vecchio Balordo»; termine quantomai azzeccato perché richiama alla mente l’idea di una persona anziana a cui si vuol bene, nonostante la sua imprevedibilità. Ed il Vecchio Grifone, con le sue complicate vicende, e la sua vita da strampalato, è veramente come un Vecchio Balordo. È come un anziano parente che ti fa tribolare ma a cui non si smette mai di volere bene.

Ma, a proposito di complicate situazioni calcistiche, parlando di Brera ricordo anche un suo resoconto di una vicenda del Genoa: un’intervista filmata, risalente a circa 25 anni fa, in cui ricostruiva un momento drammatico nella vita del Grifo. Situazione che lui aveva vissuto da dentro, nel vero senso della parola, poiché in concomitanza di quegli eventi, si era trovato all’interno della sede del club rossoblù. A dire il vero, di quel resoconto ricordo più le emozioni e le sensazioni evocate da Brera che non i dettagli, come per esempio le squadre coinvolte e gli incontri giocati, a cui fece riferimento. Credo si trattasse di una serie di spareggi per non retrocedere in serie C, nel’68, che vedeva coinvolti il Genoa insieme a Lecco, Perugia, Venezia e Messina. In quelle giornate, a Genova, fu anche allestito un sistema di altoparlanti, a De Ferrari, che informava i tifosi genoani, raccoltisi in piazza, sull’andamento delle partite.

Credo appunto di ricordare che, in occasione dello scontro decisivo per non retrocedere, Brera raccontasse di essersi ritrovato nella sede del Genoa. Il giornalista diceva anche di essersi commosso profondamente per qualcosa verificatosi al momento del fischio finale : a salvezza acquisita, ci fu giusto il tempo di diffondere la lieta notizia, tramite radio, tv e altri mezzi d’informazione, che la sede del Genoa cominciò rapidamente ad essere invasa dai telegrammi dei comandanti di mercantili e transatlantici ; messaggi cioè inviati dalle navi della compagnie genovesi, che solcavano i mari di tutto il mondo, in cui ci si complimentava per il buon esito degli spareggi.  E, sempre a detta di Gianni Brera, il solo rievocare quella vicenda gli metteva i brividi addosso dall’emozione.

Comunque, del grande giornalista lombardo, c’è una frase che resterà nella Storia: «Quando il Genoa praticava già il football, gli altri si accorgevano di avere i piedi solo quando gli dolevano».

Massimo Prati

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