Da bambini funzionava così. Tutti a muro, scrutati dai due capitani che solitamente erano i più forti del campetto. Dopo il bim-bum-bam s’iniziava con un nome, poi un altro, un altro, un altro, senza troppa logica, magari prediligendo la simpatia alla bravura. Venivano scelti tutti, tutti trovavano un ruolo. Tutti, tranne uno. L’ultimo, il “palo della banda dell’Ortica” per dirla alla Jannacci. Costui, il malcapitato che in quegli attimi era attanagliato da sentimenti di colpa in merito alla sua esistenza, finiva sempre in porta. E spesso risolveva la partita parando il rigore all’ultimo secondo, prima dell’ora di cena.
Funzionava così una rudimentale forma di riscatto sociale. Dopo quella parata, tutti ti erano amici. A volte lo sport cambia le esistenze e l’uomo neanche se ne accorge. C’è sempre stato, e sempre ci sarà, l’ultimo dell’oratorio. Non è affatto un’etichetta spregevole, anzi è onnipresente nel quotidiano sotto svariate spoglie. Osservando il popolo rossoblù sembra che Isaac Cofie combatta contro un complesso associabile all’idea appena esposta: parte dei genoani pensa davvero che sia l’extrema ratio del centrocampo, o lui altrimenti il baratro.
Il ghanese non ha la tecnica di Veloso, i muscoli guizzanti di Omeonga o la lettura della situazione di Rigoni. Sa cosa e quanto può dare alla causa del Genoa. Cofie c’è sempre, non si è mai tirato indietro, nemmeno quando l’anno scorso debuttò tra i mugugni generali contro la Juventus. Prestazione personale pressoché perfetta. Amatissimo da ogni componente dello spogliatoio del Grifone, Isaac è un veterano della Serie A con oltre centro presenze spalmate in sei stagioni. Non è il titolare del Genoa, lo diventa quando le cose vanno male e di questo non si è mai lamentato una volta in pubblico. Splendido esempio di professionista, che dispenserà uno dei suoi mille sorrisi quotidiani anche quando resterà l’ultimo dell’oratorio.