SPQR: sono preveggenti questi romani

Correva l’anno 1983: Massimo Prati racconta i suoi ricordi di una partita tra Roma e Genoa all'Olimpico

Il settore tifosi rossoblù durante Roma-Genoa 2-0 del 2 gennaio 1983 (Foto Almanaccogiallorosso.it)

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.

C’è un divertentissimo film di John Landis, “Animal House”, che narra le gesta di una banda di studenti scansafatiche in un college americano. Stanco di scherzi dementi e di comportamenti goliardici, il preside dell’istituto, in combutta con alcuni compiacenti secchioni, decide di eliminare le pecore nere del college, e quasi ci riesce. Ma il gruppo di teste calde, dopo un comprensibile momento di scoramento, si ricompatta, progetta una tremenda vendetta e riuscirà ad avere la meglio, arrivando addirittura a sabotare la festa di fine anno di quella prestigiosa istituzione scolastica.

Nel momento dello scontro cruciale, è John Belushi (nel film, il personaggio da lui interpretato si chiama “Bluto”), uno dei leader del gruppo, a dare la scossa; si rivolge ad un compagno, che aveva ormai accettato l’idea di abbandonare gli studi e pensava che ormai per loro fosse finita, e quasi urlando a squarciagola gli dice: «Finita? Qui non è finita proprio per niente. Dobbiamo passare al contrattacco. Era forse finita quando, all’inizio dell seconda guerra mondiale, i tedeschi hanno bombardato Pearl Harbor? Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!».

Ma nel gruppo, qualcuno dotato di alcuni minimi elementi di storia doveva pur esserci, perché a quel punto si sente la voce di un altro studente che dice: «Tedeschi? Pearl Harbor? Cosa diavolo sta dicendo? Cazzo c’entrano i tedeschi con il bombardamento di Pearl Harbor?». Ma il resto della compagnia si stava ormai rigenerando e così un terzo studente fa un cenno, come a dire : «Non interromperlo. Ormai si è lanciato e va bene lo stesso. L’importante è ritrovare coraggio».

Io avevo un amico che si chiamava Paolo che mi ricordava un po’ il John Belushi del film di John Landis. Paolo era un simpaticissimo borgataro romano, del quale fui ospite per circa due mesi a Roma alla fine degli anni Settanta. Ci eravamo conosciuti nel ’78 ad un’assemblea di studenti della sinistra. Facemmo amicizia e lo stesso anno, il mio nuovo amico venne a passare un po’ di tempo a casa mia. L’estate dopo volle ricambiare la cortesia e mi invitò a Roma da lui. Paolo era un po’ come il “Bluto” di “Animal House”: Nelle riunioni, nelle assemblee o nelle conversazioni private, cercava sempre la frase che potesse scuotere gli animi, ma modificava qualche dettaglio fondamentale e l’effetto comico era assicurato.

Così una volta mi disse «tutti i nodi vengono a galla», anziché «tutti i nodi vengono al pettine» ed io, da buon genovese, a spiegargli che quelli che vengono a galla sono “i galusci”, cioè gli stronzi e non i nodi. Un’altra volta mi disse invece: «Tanto va la gatta al largo che ci lascia lo zampino». E anche in quel caso, fui costretto a cimentarmi nella “parafrasi” di quel tipico modo di dire, spiegandogli che si trattava di “lardo” e non di “largo”. Comunque, forse anche a causa di queste sue frequenti uscite ridicole, i due mesi estivi, passati a Roma da lui, furono mesi vissuti in allegria e spensieratezza.

La Roma storica naturalmente è molto bella: il Colosseo, i Fori Imperiali, Piazza Navona, Campo dei Fiori, Trinità dei Monti, i Musei Vaticani. Ma la vita sociale della città è altrettanto suggestiva ed affascinante. Io passavo i miei giorni tra il Tuscolano e San Lorenzo, dove andavo spesso a mangiare in una trattoria popolare che si chiamava “La Pappardella”, dalle parti di via dei Sabelli o di via dei Latini; ed era bello andare lì non solo perché si mangiava bene e si spendeva poco, ma anche perché era un divertente microcosmo di variopinta umanità capitolina. Ed è in quel periodo che ho imparato ad apprezzare Roma ed i romani, sorseggiando nei bar di borgata un caffè “al vetro” (come dicono loro), cioè nel bicchiere anziché nella tazzina. Usanza, tra l’altro, più in voga nelle borgate che non nei caffè chic del centro di Roma, almeno a quei tempi.

Da allora, ogni volta che vado a Roma mi sembra un po’ come di entrare in un cinema: sento parlare un grassottello in un’osteria e mi viene in mente “Il bombolo” di Tomas Milian; alla fermata dell’autobus una simpatica ed anziana signora romana inizia a chiacchierare con me e penso subito alla “sora Lella” dei film di Verdone («Nonna m’hanno fatto un buono: che vor dì?»).

Non ci posso far niente, è più forte di me: il romanesco mi piace. Ci sono lingue, accenti, dialetti che non trovo gradevoli, altri addirittura irritanti. Il torinese, per esempio, con tutti quei “né” e “basta là” non è che mi piaccia un granché; ed il barese, pieno di “a” che si trasformano in “e”, mi dà veramente fastidio, soprattutto nella versione di Bari vecchia.

E qui è d’obbligo una breve parentesi che risale ad un periodo ben più recente: alcuni anni fa, stavo guardando la televisione con un’amica spagnola che parla la nostra lingua in modo perfetto, mi stavo complimentando con lei proprio per la sua competenza e per la sua proprietà di linguaggio, quando in collegamento da Genova, un giocatore con una maglia multicolore incomincia a parlare. E allora la mia amica spagnola mi dice: «Ma la vostra lingua è facile. Senti quel giocatore con quello strano accento che sembra dell’est europeo. Anche lui è straniero, ha sicuramente qualche problema serio con la grammatica, eppure con l’italiano se la cava lo stesso: diciamo che quantomeno riesce a farsi capire».

Io rivolsi divertito il mio sguardo allo schermo, pensai che, a voler essere indulgenti, l’individuo in questione era del sud-est della penisola piuttosto che dell’Europa orientale, e poi le risposi: «Guarda che quello non è uno straniero, ma un italiano, di Bari. Ed il nostro è veramente uno strano paese: pensa un po’ che ha scritto anche un libro».

Ma ritorniamo alla “Città Eterna”. La gente di Roma ha un modo di fare un po’ scanzonato o sbarazzino, a volte un po’ indisponente, altre volte spietato, ma che comunque non lascia mai indifferenti. E sulle sponde del Tevere, una momentanea difficoltà di pronuncia può dare anche origine ad un specie di marchio che ti porti addosso per tutta la vita. Un giorno mi presentarono un tipo chiamato “er cobra”. A me, il fantomatico “cobra”, non sembrava né infido né pericoloso, per cui chiesi ad un amico il motivo di quel soprannome. Quel ragazzo si chiamava Cosimo Braschi e, molti anni prima, aveva vissuto nervosamente il primo giorno di scuola. La maestra gli aveva chiesto quale fosse il suo nome e lui, a causa della forte emozione, aveva detto “Co” e poi si era piantato, allora in una frazione infinitesima di secondo aveva provato a continuare sillabando il proprio cognome, ma si era bloccato di nuovo e alla fine era uscito un semplice “Bra”. Il risultato fu che, alla domanda della maestra, «Come ti chiami?», la sua risposta era stata «mi chiamo co-bra». E da quel giorno, per la gente del posto Cosimo non fu mai più Cosimo Braschi, perché per tutti era notoriamente “er cobra”.

Insomma, ormai avrete capito anche voi che ricordo con molto piacere quelle vacanze estive passate in mezzo ai romani. E da allora, sentire la loro parlata è qualcosa che mi mette sempre di buon umore.

È anche per questo che, pur trattandosi di una rotonda sconfitta, ricordo sempre con un certo piacere una trasferta a Roma di molti anni fa. Era il periodo delle vacanze scolastiche di fine anno, nel periodo a cavallo tra l’82 e l’83. Dopo aver festeggiato insieme il veglione di San Silvestro, decidemmo di andare a vedere il Genoa all’Olimpico, dove avrebbe giocato contro la Roma. Eravamo in cinque: il sottoscritto, Marco di Sestri Ponente, e tre amici dei vicoli, Fabio, un altro ragazzo che si chiamava Massimo come me, ed un altro Marco. Andammo a Roma in treno partendo poco dopo la mezzanotte. Nello scompartimento con noi c’era un ragazzo di Roma, ci salutò ma era evidente che non aveva intenzione di fare conversazione. Forse era stanco, forse era un militare in congedo e pensava agli affari suoi.

L’indomani mattina ci svegliammo verso le sei: eravamo quasi arrivati. Cominciammo a scherzare e a parlare tra noi. Anche il romano si era svegliato, ma continuava il suo strano silenzio, tanto che incominciai a pensare: forse è laziale e non gli vanno a genio i genoani. Invece era proprio uno “d’a maggica”, perché arrivati a Termini, come ringalluzzito, ci guardò e, riferendosi alla partita che si sarebbe disputata nel pomeriggio, ci disse: «E mò v’annate a pijà du’ mazzate».

Non era stato un campione di ospitalità, ma la sua battuta mi aveva divertito lo stesso e nel corso della giornata, ogni tanto, giusto per scherzare un po’, provavo ad imitare il nostro poco loquace compagno di viaggio. Mi avvicinavo ai miei amici, che avevano le loro sciarpe del Genoa, e cercando di riprodurre l’accento romano, dicevo loro: «Aò! E mò v’annate a pijà du’ mazzate!».

Poco dopo, entrammo in un bar per fare colazione. Ai tavoli, al banco, era pieno di romanisti, barista compreso, con la sola eccezione di un mingherlino che, come ebbi modo di scoprire in seguito, si chiamava Romolo, come l’antico fondatore della città. Il piccoletto forse era laziale, o forse era un semplice bastian contrario; fatto sta che, quando vide i nostri colori, ci sorrise e ci disse: «Bravi ragazzi. Oggi vincete uno a zero». Ma a quel punto ci fu come un’insurrezione di popolo, a cominciare dal proprietario del bar: «Aò, a Romolè ?!?… …ma vedi d’annattene!». Ed il laziale, o bastian contrario che fosse, fu veramente costretto a lasciare il locale.

Con noi invece non ci furono problemi, anzi fummo accolti con simpatia e cordialità: i rapporti tra Lupi e Grifoni a quei tempi erano buoni. E faccio fatica a pensare che oggi tutto questo non sia più vero, visto che negli ultimi anni molti tifosi genoani in trasferta a Roma sono stati aggrediti.

Siccome era ancora presto, usciti dal bar decidemmo di aprire una parentesi culturale, e di fare un salto nella Città del Vaticano. Arrivammo in piazza e ci riposammo. Non era passata neanche un’oretta quando Massimo, che era seduto sopra un muretto, decise che era arrivato il momento di avviarsi allo stadio. Saltò giù e, con tutto il suo peso, andò ad atterrare sull’alluce di Marco di Sestri, che era in piedi di fronte a lui. Il dolore doveva essere stato fortissimo, anche perché Marco calzava Superga, mentre Massimo, che per giunta in quel momento se la rideva senza ritegno, ai piedi aveva degli scarponi.

Probabilmente Marco avrebbe voluto tirare un pugno sulla faccia di Massimo, ma alla fine il senso d’amicizia prevalse e allora, per sfogare la propria rabbia, pensò semplicemente di risolvere il tutto tirando un bestemmione, rivolto “al capo dei capi dei santi in paradiso”. Ma si era completamente scordato che eravamo in Piazza San Pietro e per di più in un giorno di festa. In quel luogo sacro, che era pieno di gente venuta per celebrare la messa, calò un silenzio di ghiaccio. Penso che, se fosse stato possibile, ci avrebbero messo al rogo sulla pubblica piazza. Eh sì, era proprio arrivato il momento di dover andarsene via.

Arrivammo all’Olimpico a partita quasi iniziata. Anche la curva ospiti era affollata di tifosi romani, e risultava davvero difficile scendere in basso nel settore dove aveva preso posto la massa festante del popolo rossoblù. Decidemmo di seguire l’incontro più in alto, in mezzo ai giallorossi. La partita iniziò male e continuò peggio. Neanche il tempo di sederci che, dopo poco più di un minuto, eravamo già sotto di un gol, a causa di un autorete di Beppe Corti e, al secondo minuto del secondo tempo, Di Bartolomei ci fece il due a zero. A quel punto, un vecchietto romano che era seduto a fianco a noi, con tono amichevole, quasi a volerci consolare, ci guardò e ci disse: «A regazzì, ma che ce sete venuti a fà?».

E fu allora che realizzai che, in fondo, i romani hanno una certa saggezza, e anche una buona dose di preveggenza. In primo luogo perché quella partita fu senza storia, e se non fosse stato per il piacere di fare una gita a Roma tra amici genoani, non sarebbe valsa la pena di andarla a vedere. Ma soprattutto perché le due famose mazzate, pronosticate dal nostro caustico e poco ciarliero compagno di scompartimento, nel viaggio di andata, alla fine le avevamo effettivamente pigliate!

Massimo Prati

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.