Massimo Prati – Dalla culla alla tomba

Lo scrittore genovese racconta che dalla nascita sino alla morte i colori del Genoa sono dentro la pelle dei tifosi


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Ricordo che, durante una lezione del corso di “Storia della Lingua Inglese”, un simpaticissimo e divertentissimo Professore dell’Università di Genova (che era anche un’autorità in materia) ebbe a dire che l’idioma inglese, per carattestiche strutturali, si prestava più all’allitterazione che non alla rima.

Il che ovviamente non vuol dire che nella lingua inglese non possano esserci rime di tipo elaborato (come, per esempio, nella poesia più elevata) o rime più semplici (tipiche dei proverbi e della cultura popolare). Quando devono parlare di un’abitudine, una passione, un amore che dura tutta una vita, gli inglesi per esempio usano un’espressione tradizionale: “From the womb to the tomb“.  La traduzione letterale sarebbe: “dall’utero alla tomba”, ma per ragioni culturali un italiano tenderebbe forse a tradurre “dalla culla alla tomba”.

Ed il Genoa è veramente qualcosa con cui entri in contatto quando ancora sei nella culla. Se fosse una canzone, il Genoa sarebbe il pezzo magistralmente interpretato da Frank Sinatra: “I’ve got you under my skin” (sei dentro la pelle, sei dentro il mio cuore profondamente, talmente dentro che sei realmente una parte di me … ).

Io non ricordo la prima volta che ho visto una partita del Genoa: in base a quanto mi hanno detto i miei genitori, era il 1966 ed ero troppo piccolo per poterlo ricordare: avevo tre anni. I miei  primi ricordi  sono piuttosto circoscritti e riguardano un periodo che va dal 1969 al 1971. Ma, ripeto, si tratta ancora di frammenti limitati: un giocatore, un’azione,  al massimo il dettaglio di una partita.

Dopo il ’71 però i ricordi si fanno più nitidi. Ricordo per esempio, un Genoa-Mantova della stagione 1972-1973, finito tre a zero,  in una  splendida giornata di sole. Sono allo stadio con mio padre, in Gradinata Nord. Il portiere della squadra avversaria si avvicina alla porta per mettersi in postazione. In gradinata c’è un momento di religioso silenzio. Tutti si alzano e restano in piedi e poi scatta un applauso scrosciante: un tributo che raramente mi è capitato di vedere ad una partita del Genoa. Mio padre mi spiega che quello è Da Pozzo, ex portiere del Grifo, detentore del record d’imbattibilità tra i professionisti dal 1964: 791 minuti senza prendere un gol (un record che resisterà per quasi un decennio, battuto per la prima volta, nel 1973, da Zoff nella Juve con 903 minuti d’imbattibilità,  poi nel 1994 da Rossi nel Milan che giocò più di 10 partite, 929 minuti senza subire gol, ed infine da Gianluigi Buffon, nel 2016, la cui porta rimase inviolata per 974 minuti. Nel corso di quel Genoa-Mantova capii cosa e quanto possa essere l’amore dei genoani per i giocatori che mostrano attaccamento alla maglia.

Qualche settimana dopo ebbi modo di seguire anche un Genoa-Varese. Si trattò di un’altra vittoria, per tre reti a due e, aldilà del risultato comunque positivo, ci furono dei risvolti personali che mi resero quella partita indimenticabile. Avevo uno zio al quale del calcio non gliene poteva fregare di meno. A quanto ricordo, non aveva mai visto una partita prima di quel Genoa-Varese, né vide altre partite di football in seguito. Però era parente, o amico di famiglia (adesso non saprei dire con precisione) di Claudio Gentile. Giocatore che 10 anni dopo sarebbe divenuto campione del mondo, nonché fustigatore di Maradona ai mondiali di Spagna ‘82, ma che a quei tempi era ancora un illustre sconosciuto, difensore di una squadra minore lombarda per la quale, tra l’altro, quel giorno segnò anche un gol.

Così quel mio zio ed un mio cuginetto, più un altro parente, o conoscente, di Claudio Gentile, decisero di venire a vedere Genoa-Varese con me e mio padre. Comprammo cinque biglietti e ce ne andammo nel piano superiore della curvetta nord, lato distinti.  Ci eravamo seduti da poco e ricordo che rimasi colpito dalla presenza di alcuni spettatori che, apparentemente, non erano interessati alla partita perché non guardavano mai in direzione del campo ma in direzione opposta, dietro gli spalti. Da quel settore di stadio si poteva comunicare a gesti con le celle del carcere di Marassi che, come è noto, è attiguo alla Gradinata Nord del Luigi Ferraris. Quelle persone erano i familiari dei detenuti, ed erano venuti allo stadio non per vedere giocare al pallone ma per salutare i parenti del “quinto braccio”.

Comunque, quel giorno, alla fine della partita ci dirigemmo verso gli spogliatoi. Mio zio chiese se poteva salutare Claudio Gentile, spiegando che era un suo parente. Dovemmo attendere un po’, probabilmente gli addetti alla sicurezza e gli accompagnatori della squadra fecero alcune verifiche col giocatore. Poi ci fecero passare e ci dissero di restare lì, mentre mio zio e l’altro parente di Claudio Gentile furono accompagnati in una sala e poterono parlare con lui. Quella è stata l’unica volta che sono entrato nel “ventre” di Marassi.

Mi ricordo naturalmente Genoa-Rimini del 1971, la partita della promozione dalla C alla B, giocata davanti a 55.000 persone, e poi, due anni dopo, il Genoa-Lecco che ci portò in serie A.  Le mie sono reminiscenze infantili, e quindi sono possibili non poche imprecisioni, ma se ricordo bene  in quell’occasione  fu organizzata una grande festa: liberazione di uno stormo di piccioni in aria in gradinata sud, e lancio di paracadutisti  sul terreno di gioco (due atterrarono con precisione millimetrica all’interno del cerchio di centrocampo ma uno, a causa delle correnti d’aria, finì sul  sul greto del torrente Bisagno: lo vidi sparire dietro al tetto delle tribune). L’incontro ufficiale di campionato fu preceduto da una partitella delle giovanili (in cui già si faceva notare un giovane e promettente Roberto Pruzzo). Alla fine vincemmo uno a zero, con gol di Sidio Corradi e fu delirio rossoblù, in un tripudio di bandiere: tornavamo in A dopo   sette o otto anni di B ed anche uno di C. Era il Genoa di Arturo “Sandokan” Silvestri.

La prima stagione che ricordo nel suo complesso è invece quella del 1973/74. L’anno non fu dei più felici ma accaddero eventi particolari, che non potevano non rimanere impressi nella mente di un ragazzino. Di quella stagione ricordo anche un derby di andata  perso per due a zero, (gol di Salvi su passaggio di Rossinelli, mi sembra, ed autorete di Claudio Maselli), ma preferisco non entrare nei dettagli.

Alcuni dettagli vorrei invece darli per ciò che riguarda il mio primo ingresso in gradinata sud, che, per una serie di circostanze, ricordo molto bene. Con papà, si andava allo stadio sempre con largo anticipo, per prendere posto in Gradinata Nord. In occasione di Genoa-Torino, facemmo tutto come al solito. Arrivammo allo stadio un’ora  prima e ci avviammo verso la gradinata. Ma il Genoa  quell’anno stava andando davvero male ed i tifosi avevano organizzato dei picchetti e delle contestazioni: in segno di protesta, bisognava “disertare” la  Nord. Così ci convinsero ad andare alla sud.

Entrammo nello stadio di Marassi e lo spettacolo fu impressionante. Il Genoa giocava in casa e, pur non essendo un match di cartello, ad un’ora dal fischio d’inizio nello stadio c’era già un sacco di gente; sebbene solo gradinata la sud fosse veramente affollata, mentre nelle tribune e  nei distinti si potevano notare alcuni spazi vuoti. Ma ciò che impressionava era invece la Nord, dove non si vedeva un’anima viva. Qualsiasi tifoso italiano comprenderà facilmente la stranezza di quella situazione: la tua squadra gioca in casa ed il luogo che rappresenta il cuore del tifo più caldo è un posto completamente deserto. Ma, ad un certo punto, la situazione cambiò. Il problema era che i genoani continuavano a venire allo stadio e, non essendoci più posti disponibili alla sud, la gente si dirigeva verso la Nord, che lentamente stava cominciando a riempirsi. E al momento del calcio di inizio, tutto era tornato alla normalità: quando la squadra entrò in campo, la Gradinata Nord era stracolma come suo solito.

Per la cronaca: al Genoa furono fischiati due rigori contro, entrambi trasformati, e perse due a zero. Due decisioni di Casarin che ovviamente non furono molto apprezzate dal pubblico rossoblù. Infatti l’arbitro restò sotto assedio negli spogliatoi per molto tempo. Riuscì a lasciare lo stadio solo molte ore dopo la fine della partita. Un po’ di tempo fa, mi è capitato di sentire in TV Casarin rievocare quegli avvenimenti. Evidentemente, a più di quarant’anni di distanza, se ne ricorda ancora molto bene.

Di quell’anno ricordo anche Genoa-Juventus, che in realtà si era giocata un mesetto prima di Genoa-Torino. Io e mio padre continuavamo ad andare in Gradinata Nord. Ma in quel periodo dell’anno ci eravamo spostati nella curvetta lato tribuna. Era il settore dove per tanti anni c’è stato un bellissimo striscione carioca che recitava: “Genoa, bailando o ritmo do samba”. Lì mio padre si dava appuntamento con i suoi colleghi portuali (più mogli e figli al seguito). Era un angolo di stadio dal tifo caldo, e nelle rare volte in cui la Nord tirava il fiato, in quel settore ci si alzava tutti in piedi per lanciare l’immancabile grido di « Genoa Genoa Genoa ». Quella partita fu molto sfortunata. La Juve, con Cuccureddu, sfruttò l’unica occasione da rete ; per il Genoa, invece, solo cattiva sorte : palo di Bittolo, gol di Corradi annullato, rigore fallito sotto la Nord. In effetti ricordo che, da quella curvetta lato tribuna, purtroppo vedemmo molto bene Mario Corso sbagliare il rigore. Si diceva che prima di allora non ne avesse mai sbagliato uno.

Ma, per quanto possa sembrare strano, una delle partite di quella stagione che ricordo meglio è una partita che non ho visto. Quell’anno, speravo di poter andare a vedere il derby di ritorno insieme a mio padre. Ma mio padre quella domenica era di turno, così non potemmo andare a vedere quella partita.  Il giorno del derby, ricordo che presi la radiolina portatile che mia madre aveva comprato da poco: amava ascoltare la Hit Parade di Lelio Lutazzi all’ora di pranzo e, mentre preparava da mangiare o lavava i piatti, la radiolina era sempre appesa alla credenza, sopra il lavabo.  Ma quella domenica la trasmissione di Lelio Lutazzi non c’era. In compenso c’era “Tutto il Calcio Minuto per Minuto”, condotto, tra gli altri, anche da un radiocronista genoano: Enrico Ameri.

Presi dunque la radiolina e scesi in cortile (ero troppo agitato per restare a casa), mi sintonizzai sulla Rai e incominciai a seguire la radiocronaca. Dopo pochi minuti avevo un capannello di compagni genoani intorno a me (sì, eravamo a Sampierdarena, ma in tutti i casi i figli dei portuali che abitavano nei caseggiati dell’isolato stavano solo col Genoa, ed eravamo almeno una decina ad abitare da quelle parti). La partita prese una buona piega verso la fine del secondo tempo: passammo in vantaggio con gol di Derlin a circa un quarto d’ora dalla fine del match. Dovevamo resistere ancora pochi minuti. Ed era quasi fatta, ci avviavamo verso il recupero, quando la radio ci annuncia il pareggio della Sampdoria: gol al 90′, in rovesciata, di Mario Maraschi. Fu una delusione indescrivibile.

Anni dopo, mi capitò di parlare di quella rete con Marco, un amico genoano dei vicoli che era stato presente a quella stracittadina. Ricordo ancora il suo commento: “Quel derby mi ha tolto cinque anni di vita”.

Tutto questo lungo preambolo, per dire che ho ben stampata in mente la stagione 1973/74 e mi ricordo in dettaglio del derby di ritorno di quell’anno inglorioso. Me ne ricordavo ancora bene circa 30 anni dopo.

È il maggio del 2003. Sto entrando all’ospedale di Villa Scassi per andare a trovare mio padre. È malato di tumore in fase ormai terminale. Pochi mesi di vita, forse solamente un paio di settimane.

Vado a trovarlo all’ora di pranzo con la mia fidanzata ed il suo stato d’animo è quello di chi è ricoverato in un reparto oncologico. Nei limiti del possibile, vorrei tirarlo su di morale. Potrei dirgli che, pur tra tutte le mille difficoltà del  mio lavoro, ho passato il mio ultimo esame con trenta e lode, ho già finito la tesi e tra qualche mese potrò laurearmi con 110 e lode. Ne sarebbe  sicuramente  contento,  ma la notizia non lo scuoterebbe. Così mi viene in mente di parlargli del Genoa. E per giunta mi viene in mente di parlargli di un fatto che non è per niente piacevole a ricordare (farsi rimontare in un derby in pieno recupero non è certo qualcosa che tira su di morale). Ma non importa, nel bene o nel male, è qualcosa che riguarda il Genoa. E poi, tutti questi pensieri mi frullano per la testa in una frazione di secondo, non ho certo il tempo di pensarci su troppo. Così gli dico: “Pa’. Nel derby di ritorno del ’73, che vincevamo uno a zero con gol di Derlin, chi è che ha pareggiato per i doriani?”

 E a quel punto vedo un vulcano che si risveglia e comincia a ribollire. Lui mi risponde “Belin! Ma non  ti ricordi? Ha segnato Maraschi”. E poi mi parla della carriera calcistica di Mario Maraschi, spiegandomi che aveva vinto uno scudetto qualche anno prima con la Fiorentina; mi cita la formazione del doria: Massimo Cacciatori, Nello Santin, Marco Rossinelli…

Poi abbondona velocemente questi due argomenti, perché in fondo si tratta di doriani che non meritano troppa attenzione e si concentra sulla carriera di Roberto Derlin: l’avevamo preso dal Messina, ma in seguito avrebbe anche giocato nel Vicenza di Cinesinho, per poi tornare a giocare con noi. Continua citando la formazione del Genoa: Spalazzi, Maggioni, Bittolo, Maselli, Rosato, Garben (Garbarini non lo chiamava mai per cognome) Perotti, Derlin, Bordon, Corso, Corradi…   …solo qualche incertezza alla fine: sulla presenza o meno di Gigi Simoni. Ma ormai si è lanciato: inizia a spaziare da un campionato all’altro, da un attaccante al portiere. Taglia, cuce e ricuce  di calcio per circa un’ora. Non ricordo perché, ma ad un certo punto mi parla anche della Juve e del Toro degli anni Quaranta e Cinquanta, in particolare di due portieri: Sentimenti IV e  Valerio Bacigalupo. Lo lasciamo parlare, e alla fine lo troviamo completamente cambiato rispetto a come lo avevamo trovato all’inizio della nostra visita.

“Ciao pa’. Ripasso stasera”. E quando lascio la camera, mio padre ha un’espressione felice (forse è stata l’ultima volta che l’ho visto sorridere). La  sua mente  era ancora sotto gli influssi benefici di pensieri genoani, per un po’ di tempo era riuscito a scordarsi del luogo in cui si trovava e dell’ultimo stadio della sua malattia. All’uscita del padiglione, la mia fidanzata di allora mi dice: “E’ stupefacente vedere come parlare del Genoa gli abbia cambiato l’umore”.

Forse è stato stupefacente per lei, che era – e penso sia ancora –  una tiepida e distaccata tifosa della Sampdoria. Sicuramente non lo è per la maggior parte dei tifosi genoani. Non faccio retorica a buon mercato. Quello che dico è quello che penso, e quello che penso è la pura e semplice verità.

Mi è capitato di sentire personalmente altre testimonianze di amici genoani che mi hanno raccontato di avere vissuto gli ultimi istanti con un caro parente in un modo analogo al mio; così come mi è capitato di leggere su giornali e riviste la ricostruzione di un’esperienza così dolorosamente simile alla mia, come quella del giornalista Massimo Donelli (anche lui, come me, figlio di un portuale genoano), che credo fu pubblicata una ventina di anni fa su un’edizione del Tuttosport.

Anzi, ad essere precisi, io stesso avevo completamente rimosso il giorno di quella visita all’ospedale di Villa Scassi di cui ho appena parlato. Ed è stata proprio la lettura di un altro racconto, quello di Mauro Veneziani (autore di “Genoano a Prescindere”) che, avendo delle forti simililarità con quanto io avevo vissuto, ha in qualche modo fatto riemergere alla memoria quella conversazione tra me e mio padre, nei suoi ultimi giorni di vita, di cui mi ero dimenticato. Perché è proprio così: il Genoa è una cosa che ti porti dentro…   ….dalla culla alla tomba.

Massimo Prati

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