Ma io non sono un pirla

L'epiteto entrato nella devozione interista è forse ciò che ha convinto Zangrillo ad abbandonare il Meazza

Frendrup Zangrillo Genoa
Frendrup e l'abbraccio del presidente Zangrillo (foto di Genoa CFC Tanopress)

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Fosse un pugile, si ascriverebbero a Gilardino le migliori qualità dell’incassatore. Sarà la postura da guardia alta, il volto imperscrutabile o la giacca finalmente estratta dall’armadio, ma una volta subito un colossale torto arbitrale il tecnico del Genoa si è limitato a scuotere la testa e a cercare di riorganizzare la sua squadra. Niente manette ammiccanti verso la camera, nessun abito gettato a terra. Al termine della partita, la sua signorilità non l’ha spinto oltre al generico riferimento ad «episodi particolari» accaduti allo stadio Meazza, quando al contrario taluni colleghi avrebbero incendiato i microfoni. Più ti colpiscono, e più ti fortificano. Era successo con il Milan, ma a ridosso del novantesimo, è ricapitato con l’Inter quasi con un’ora d’anticipo: molte squadre avrebbero fronteggiato un’imbarcata, non il Genoa che ha trovato nella propria identità la forza per rientrare immediatamente in gara e duellare alla pari con la squadra più forte del campionato.

Un anno fa, il Grifone batteva il Cosenza celebrando la vittoria e il consolidamento del secondo posto in B come se avesse superato un quarto di finale di coppa; oggi, perdere a San Siro di misura – con simile misura – è fastidioso. Lo sfregio di Ayroldi è di una gravità inaudita: un ratto del Var, un esercizio di prepotenza sull’inerzia della partita che stava scorrendo fluida, con piacere. A Milano si stavano miscelando elementi di spettacolarità: la capolista indiscussa, l’avversaria mossa da intento barricadiero, uno stadio teatro colmo in ogni settore. Mancava solo un arbitraggio decoroso, all’altezza della Scala del Calcio, come la definì Evangelisti. Eppure ad Ayroldi, piccola vedetta barese arroccata sul proprio fallace convincimento, non è bastato osservare al monitor l’errore più grave della sua carriera, anzi l’ha pure confermato. Il Var serve a cassare i «chiari ed evidenti errori» arbitrali, in guisa al regolamento: lunedì è accaduto il contrario, come se il giudizio di ultime cure fosse stato revocato dal cancelliere.

«Ma io non sono un pirla»: l’epiteto più meneghino che esista, entrato nella devozione interista con prorompenza mourinhana, è forse ciò che ha convinto il presidente Zangrillo ad abbandonare anzitempo il Meazza, vista l’esecuzione di Sanchez. Ed è ciò che ha pensato anche Frendrup e la moltitudine di genoani che si sono sentiti spogliati di qualcosa, defraudati, derisi dalla sceneggiata di Barella che se fosse candidata all’imminente notte degli Oscar conquisterebbe senz’altro la statuetta per i migliori effetti speciali. Cade la rabbia sportiva, la notte trascina l’indignazione e, al loro posto, tratteggia il solco di un piccolo sorriso quella chiosa al fulmicotone pronunciata da Ciotti alla radio mezzo secolo fa, attualizzabile sostituendo il soggetto: «Ha arbitrato Lo Bello davanti a ottantamila testimoni». Gli stessi che hanno visto il Genoa del grande incassatore giocare alla pari dell’Inter, come all’andata e forse di più che all’andata.

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