Federsupporter: caso Tavecchio bis, ma è proprio vero che non si può fare nulla?

In questi ultimi giorni plurimi organi di informazione, sportivi e non sportivi,  hanno riportato, con grande enfasi, alcune dichiarazioni asseritamente attribuite al Presidente della FIGC, rag. Carlo Tavecchio, gravemente discriminatorie per motivi razziali, religiosi e sessuali; dichiarazioni che sarebbero state rilasciate nell’ambito di un’intervista del giugno scorso al Direttore del quotidiano online “Soccer Life”, Massimiliano […]


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In questi ultimi giorni plurimi organi di informazione, sportivi e non sportivi,  hanno riportato, con grande enfasi, alcune dichiarazioni asseritamente attribuite al Presidente della FIGC, rag. Carlo Tavecchio, gravemente discriminatorie per motivi razziali, religiosi e sessuali; dichiarazioni che sarebbero state rilasciate nell’ambito di un’intervista del giugno scorso al Direttore del quotidiano online “Soccer Life”, Massimiliano Giacomini.

Tali dichiarazioni, come è intuibile, hanno causato una generale “levata di scudi”, sostenendosi, però, che nulla si possa fare in un caso del genere.

Ciò premesso, ricordo che già nel giugno – agosto 2014 ebbi modo di occuparmi con più Note consultabili sul sito www.federsupporter.it del primo caso Tavecchio: quello relativo all’ormai famoso “Optì Pobà”.

Caso che, come noto, fu valutato dalla Procura federale come disciplinarmente irrilevante “sia sotto il profilo oggettivo sia sotto il profilo soggettivo”, mentre, al contrario, dopo la sospensione per sei mesi da tutti gli incarichi di rilievo europeo, comminata  dall’UEFA, anche  la FIFA lo ritenne rilevante, al punto che il sunnominato Presidente fu sospeso dall’esercizio di ogni potere di rappresentanza della FIGC, oltre che a livello europeo,  a livello sportivo internazionale.

Ora il caso si ripropone, peraltro, in base alle notizie disponibili, presentando ben maggiori elementi di gravità.

Può essere, quindi, opportuna e utile una ricognizione di principi e norme dell’ordinamento sportivo alla luce di principi e norme dell’ordinamento generale, onde stabilire se, effettivamente, non si possa fare nulla.

Lo Statuto del CONI, all’art. 1, comma 2, stabilisce che esso è “autorità di disciplina, regolazione e gestione delle attività sportive, intese come elemento essenziale della formazione fisica e morale dell’individuo e parte integrante dell’educazione e della cultura nazionale”.

All’art. 2, comma 4, si prevede che “Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi contro l’esclusione, le disuguaglianze, il razzismo o la xenofobia e promuove le opportune iniziative contro ogni forma di violenza e discriminazione nello sport”.

All’art. 13 bis, comma 1, si dice che “Il Codice di Comportamento Sportivo (d’ora in poi “Codice”) definisce i doveri di lealtà, correttezza e probità sportiva sulla base dei principi e delle

 

prassi riconosciute nell’ordinamento delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate, degli Enti di promozione sportiva e delle Associazioni benemerite”.

Al successivo comma 3 si stabilisce che “I tesserati alle Federazioni sportive nazionali…Sono tenuti all’osservanza del Codice”.

Agli ulteriori commi 4 e 5 si prevede, altresì, l’istituzione presso il CONI del Garante del Codice di comportamento sportivo che “segnala ai competenti organi degli Enti di appartenenza i casi di sospetta violazione del Codice, ai fini dell’eventuale giudizio disciplinare”.

L’art. 23, comma 3, sancisce che “La Giunta Nazionale vigila sul corretto funzionamento delle Federazioni sportive nazionali. In caso di accertate gravi irregolarità nella gestione o di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte degli organi federali…Propone al Consiglio Nazionale la nomina di un commissario”.

Lo Statuto della FIGC, all’art. 2, comma 5, stabilisce che “La FIGC promuove l’esclusione dal giuoco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale,  di razzismo, di xenofobia e di violenza”.

Il Codice di Giustizia Sportiva (CGS) della stessa FIGC, a propria volta, all’art. 1 bis, comma 1, prevede che “Le società, i dirigenti, gli atleti, i tecnici, gli ufficiali di gara e ogni altro soggetto che svolge attività di carattere agonistico, tecnico, organizzativo, decisionale o comunque rilevante per l’ordinamento federale, sono tenuti all’osservanza delle norme e degli atti federali e devono comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva”.

L’art. 11, commi 1 e 2, recita che “Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori. I dirigenti, i tesserati di società, i soci e non soci di cui all’art. 1 bis, comma 5, che commettono una violazione del comma 1 sono puniti con l’inibizione o la squalifica non inferiore a quattro mesi o, nei casi più gravi, anche con la sanzione prevista dalla lettera g dell’art. 19, comma 1, nonché, per il settore professionistico, con l’ammenda da euro 15.000 a 30.000”.

La richiamata lettera g dell’art. 19, comma 1, contempla il “divieto di accedere agli impianti sportivi in cui si svolgono manifestazioni o gare calcistiche, anche amichevoli, nell’ambito della FIGC, con eventuale richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA”.

Aggiungasi che la successiva lettera h, relativamente a chi ricopre cariche federali, prevede la “inibizione temporanea a svolgere ogni attività in seno alla FIGC, con eventuale richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA”.

E’ da sottolineare che le dichiarazioni asseritamente attribuite al Presidente della FIGC potrebbero assumere anche una rilevanza penale: ciò sotto il profilo che l’ordinamento generale, sia nazionale sia internazionale, non tollera, come tutela di un principio di ordine pubblico, atteggiamenti o propalazione di idee atti a generare o rafforzare sentimenti di avversione verso qualsivoglia forma personale di diversità.

E’ da sottolineare, ancora, che il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo va inteso “in termini rigorosamente restrittivi, in quanto esso costituisce semplicemente l’applicazione all’ordinamento settoriale dello sport dei principi normalmente sanciti (per tutti gli ordinamenti settoriali) dall’art. 5 della Costituzione (autonomia e decentramento); del resto, l’ordinamento sportivo è derivato ed è “sostanziosamente” finanziato dallo Stato per perseguire i fini pubblicistici di organizzazione dell’attività sportiva e di gestione di un settore in cui prestano la propria unica attività professionale ed imprenditoriale decine di migliaia di cittadini ed imprese ai quali deve essere garantita la tutela giurisdizionale dei propri interessi personali, professionali ed economici…In sostanza, lo Sport italiano (ovvero tutto il sistema di CONI e Federazioni) – essendo

 

un “figlio” che riceve una “paghetta” di circa 500 milioni di euro dallo Stato…, “paghetta” che il CONI distribuisce tra le sue articolazioni (le federazioni) per l’espletamento delle proprie funzioni di organizzare le singole discipline sportive – non può certo essere trattato come un “piccolo principe” (che prende la paghetta e pretende di fare ciò che vuole, rivendicando la propria autonomia) e deve, pertanto, essere sottoposto al sindacato giurisdizionale nella stessa misura di tutti gli altri ordinamenti settoriali; ne consegue che è obbligo dei Giudici, in quanto garanti della supremazia dello Stato e degli interessi dei cittadini, quello di attribuire al concetto di “rilevanza” il corretto significato giuridico, senza restringere impropriamente tale concetto ( come invece ogni tanto ancora succede) in favore di un erroneo ed incostituzionale ampliamento dei confini dell’autonomia dell’ordinamento sportivo” (cfr pag. 30 e pag. 31, Nota in calce n. 63, “I rapporti tra ordinamento sportivo e ordinamento statale nella loro attuale configurazione”, dell’Avv. Prof. Enrico Lubrano,  Docente di Diritto dello Sport presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università LUISS Guido Carli in Roma, in www.studiolubrano.it).

Quanto, infine, ad aspetti concernenti l’intervista nel cui ambito sarebbero state rilasciate le dichiarazioni di cui trattasi, fermo restando che tali aspetti potranno essere più opportunamente esaminati e valutati eventualmente nelle competenti sedi giudiziarie, va detto che, secondo dottrina e giurisprudenza, un’intervista giornalistica, che consiste in una specifica forma con la quale vengono diffuse determinate notizie attraverso i riferimenti di altre persone, in vario modo sollecitati dalle domande del giornalista, soggiace alla stessa disciplina cui è soggetta la cronaca in generale.

Disciplina che, sommariamente, si estrinseca: nella veridicità, anche putativa, delle circostanze riferite; nella continenza formale delle espressioni usate; negli eventuali profili di interesse pubblico tali da prevalere sulla posizione del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca.

Interesse pubblico desumibile sia dal fatto che le dichiarazioni provengono da chi ricopre importanti incarichi istituzionali sia dal contenuto oggettivo delle dichiarazioni stesse, assumendo, in questi casi, il giornalista, la prospettiva del terzo osservatore dei fatti (cfr “Codice penale: Rassegna di Giurisprudenza e Dottrina” Vol. XI, Tomo primo, pag. 728 e seguenti, a cura di Mario D’Andria, Laura Dipaola, Francesco Mauro Iacoviello, Michele Lo Piano, Giuffrè Editore, 2010).

Si può, dunque, affermare, in base a tutto quanto precede, che, per davvero, non si possa fare nulla ?

Oppure è legittimo il sospetto che, in realtà, non si voglia fare nulla ?

Sono solo i tifosi tenuti a pagare, spesso pesantemente, per comportamenti discriminatori anche di lieve entità ?

Avv. Massimo Rossetti

Responsabile area legale Federsupporter

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