Ponte Morandi, un viaggio nel tempo

Pubblichiamo il racconto di Massimo Prati, autore del libro "I racconti del Grifo" (che Pianetagenoa1893.net recensirà a breve) su via Fillak e dintorni gravemente colpite dal crollo del viadotto della A10

Com'era il ponte Morandi sul Polcevera (Foto Wikipedia)

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.

Sul Ponte Morandi ci sono passato migliaia di volte facendo la spola per il trasporto giornali. Negli ultimi anni mi capitava invece di passarci solo due volte al mese, nel tragitto da Ginevra alla nostra città, un viaggio di ore: Savoia, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria. Arrivare al viadotto era sentirsi a casa. Il Ponte Morandi era come una meta, ritorno in famiglia, incontro di amici. Ma era anche viaggio nel tempo: nel vederlo, rivivevo pagine della mia vita.

La mia famiglia ha casa in quella zona dal 1962. Io sono nato nel ‘63 (anno d’inizio lavori del Ponte Morandi). Lì ho vissuto per circa trent’anni. Quel viadotto è parte della mia infanzia: io e il ponte siamo cresciuti insieme, perlomeno nei nostri primi anni di vita. Dal terrazzo, guardavo la chiesa di Coronata, volgevo lo sguardo verso la Guardia e vedevo un ponte che mi colpiva, per l’originalità delle forme e per l’ampiezza delle campate. Molti l’accostavano al ponte di Brooklyn. A me ricordava il Golden Gate. Insomma, la sua vista risvegliava in me pensieri piacevoli, e mai avrei immaginato che un giorno, al suo posto, avrei visto il vuoto.

Purtroppo il ponte è ormai diventato un luogo che associo alla morte, però non posso fare a meno di pensare alla vita che, per decenni, si è sviluppata giù a valle, intorno alle sue fondamenta.

Questi ricordi nascono dalla lettura di alcune righe, apparse su un sito, il giorno seguente al crollo del ponte. L’autore di quelle righe, che aveva vissuto tre anni in via Fillak, esprimeva concetti per me poco condivisibili e rimuoveva la storia dei luoghi che menzionava. Nel suo commento, pubblicato appunto su internet, lasciava intendere che quella parte di Genova era da sempre simbolo di decadenza e, per citare le sue testuali parole, “non aveva mai avuto colore”. Così, l’ingiusto riferimento a un ambiente incolore ha risvegliato in me questi ricordi.

Di colori, invece, il Campasso ne ha avuto parecchi. Prima di tutto, ha avuto i colori delle divise e delle tute di chi nel quartiere viveva: ferrovieri, portuali, marittimi, operai dell’Ansaldo, e quelli dell’Italsider di Campi che invadevano via Fillak a fine turno. Operai che arrivavano da via Chiusone, strada in cui, nonostante spazi ristretti, avevano sede due scuole: il Giuseppe Cesare Abba, per ragionieri, ed il biennio del chimico dell’Istituto Industriale.

E poi le centinaia di altri lavoratori: alla Feltrinelli, in via Fillak, dove si immagazzinava e lavorava il legname, e al Mercato Generale di uova e pollame, al Campasso, di fronte a un asilo e ad un campetto di calcio.

Il calcio che, tra l’altro, al Campasso ha nobili origini. Qui, su quella che era la Piazza d’Armi, si disputarono le prime partite del Genoa, sopra un terreno in cui si giocava anche al tamburello, sport – a quei tempi – praticato anche da molti operai. Infatti, negli anni Settanta, si poteva ancora ascoltare il racconto di qualche abitante del posto, che su quel campo, allora integro, aveva giocato. Io, il campo, lo ricordo invece nelle sue dimensioni ridotte, circondato da nuovi edifici. Ma, pur se rimpicciolito, nella seconda metà anni Sessanta, e fino alla prima metà dei Settanta, parte di quel vecchio campo era ancora un’area sterrata. E noi, bambini dell’isolato, utilizzavamo quel terreno di gioco per fare qualche partita, proprio come, a fine Ottocento, avevano fatto i pionieri del calcio italiano.

In via Fillak c’erano ritrovi, società, circoli Arci, uno dei quali, ‘La Ciclistica, a dispetto del nome, aveva una squadra di calcio di prima categoria, tra i suoi ragazzi ce n’era anche uno che fece carriera, giocando per anni nel campionato di B, in una squadra lombarda; il secondo circolo, che si chiamava ‘Spataro’, col suo biliardo era un ritrovo frequentato dai giocatori di ‘stecca’; infine c’era la società della ‘Fratellanza e Amicizia’. Dai suoi campi da bocce, passando per “Rompicollo”, si saliva al Belvedere, sopra al Ponte Morandi.

Genova Ponte Morandi
La copertina della Domenica del Corriere del 1967

Il Forte del Belvedere offriva subito un cambio di prospettiva, perché il ponte, che solitamente ci sovrastava, era invece giù in basso ai nostri piedi. Erano gli anni del boom, e dall’alto si vedeva la coda di mezzi che si formava in ogni momento della giornata. Da lì, in estate, noi ragazzini andavamo ancora più su: a Forte Tenaglia o alla Chiesa del Garbo, da dove il ponte era una presenza costante, visibile da molti crinali. Era un vagare imprudente lungo le vecchie mura e i bastioni, che terminava al tramonto, tornando a Campasso, andando a ritroso per ‘Rompicollo’ o, facendo in discesa la creusa che arriva a Certosa, in via della Pietra.

In quei quartieri, Campasso e Certosa, c’erano locali, angoli, luoghi dal gusto antico: penso, per esempio, ai tavoli scolpiti nel marmo, della tripperia di piazza Masnata, che la gente del posto chiamava ancora la piazza di San Martino. E penso all’altro lato di quella piazza, dove, a pochi metri, c’era la fonderia dei pallini, il vecchio stabilimento del piombo con la sua torre, costruita alla fine dell’Ottocento, forse anche prima. E poi, poco più a monte, ‘I Lupi’, pizzeria frequentata anche da molti clienti di altri quartieri o, ancora, il farinotto di piazza Palmetta, nell’antica area appartenuta a due tecnici e industriali britannici: John Wilson e Alexander McClaren. Andando ancora più nord, oltre i piloni del Ponte Morandi si arrivava al «Circolo degli Amici di Certosa», dove c’era la sede di un’altra squadra di calcio.

Ma in zona c’erano anche discoteche e locali moderni. Ricordo il ‘Topsi’, locale underground nel vero senso della parola, perché aveva sede sotto il livello stradale, nella zona centrale del nostro rione. Lì ho sentito dal vivo il reggae di Pato Banton, musicista che aveva collaborato con gli UB40. E come dimenticare un locale che fa parte della storia della nostra città: il ‘Massimo’, grande cinema, ma anche grande teatro, luogo di culto del rock italiano e tempio dell’allora emergente New Wave inglese. Vado a memoria e potrei sbagliarmi, ma mi sembra di ricordare che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta al ‘Massimo’ suonarono le band della PFM, di Gianna Nannini e del Banco del Mutuo Soccorso o formazioni straniere, del calibro di Siouxsie and the Banshees e degli XTC.

A pochi metri da via Walter Fillak c’erano anche due club del Genoa. Uno, all’inizio di via Rolando, intitolato a Felice Levratto, il bomber che sfondava le reti, l’altro a Certosa, dedicato a Luigi Burlando, leggendario campione d’Italia, nel ’23 e nel ’24. A mezza via, c’era anche un club blucerchiato, il club dei Tigrotti. E per me, genoano, era bello pensare che, pur essendo a Sampierdarena, a pochi metri da casa c’era un numero doppio di club della mia squadra, rispetto a quelli dei miei rivali. Il quartiere si colorava ogni anno anche col Giro dell’Appennino. In quella occasione, lungo via Walter Fillak, tra due ali di folla, si vedevano sfrecciare Gimondi e Battaglin, Moser o Baronchelli che, in fuga dal gruppo d’inseguimento, passavano proprio sotto il Ponte Morandi. E poi le settembrate in via Paolo Reti, i falò di San Giovanni Battista in via Porro, le raccolte di sangue con l’unità mobile, sempre davanti alla Ciclistica, che aveva anche una sezione dell’Avis.

Insomma, di colore ce n’era. E quel senso di comunità andrà riscoperto, in nuove forme, per conservare il ricordo di chi sul ponte ha trovato la morte e per rispetto di chi sotto al ponte ancora ci vive.

Massimo Prati

Autore de “I racconti del Grifo”: 400 copie sono disponibili attraverso la pagina di Un Cuore Grande così con un’offerta libera

Riceviamo e pubblichiamo

Ponte Morandi

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.