Prandelli amico fragile

Chi lavora nel calcio moderno può ritagliarsi uno spazio di sofferenza? Nessuno può permettersi di essere debole

Prandelli
Cesare Prandelli (foto di ACF Fiorentina)

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.

La nuvola nella quale è evaporata la seconda esperienza alla Fiorentina di Cesare Prandelli, e probabilmente l’appendice della sua trentennale carriera da tecnico apprezzato già dal settore giovanile, non è rossa, come nella canzone di Fabrizio De André, ma viola, per ovvie ragioni. Un amico fragile che non ha avuto timore di comunicare al sempre attento pubblico del calcio, stavolta sorpreso e sgomento, la propria angoscia, le proprie inquietudini interiori. La larga parte degli appassionati calcistici si è stupita delle dimissioni, o per meglio dire, che un uomo come Prandelli possa avere delle crepe emotive che lo conducano a vacillare fino alla crisi: una reazione che ha inconsapevolmente squarciato il velo d’incanto sopra un’incredulità che fa male. Chi lavora nel calcio può ritagliarsi uno spazio di sofferenza? Davvero le montagne di denaro che allumano il pallone rimpiccioliscono dinanzi all’autorità del dolore?

Spiazzati dalla crudeltà della motivazione scritta nella lettera firmata dall’ex ct che ricondusse la Nazionale al piano civile, molti hanno avuto contezza che, sì, il dolore può trapelare di colpo nel calcio, come in ogni altro sport e anfratto della vita terrena, e può mettere in ginocchio donne e uomini forti, all’apparenza munite di un’aura d’invincibilità. Prandelli non ha nascosto che «in questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato anche il mio modo di vedere le cose», fino a travolgerlo congiuntamente alla vorticosità del calcio moderno, specchio dell’immagine del paese nel quale tante persone – non esclusivamente avanti con l’età – faticano a riconoscersi o a trovare sicuro domicilio. Chi si meraviglia delle meditate e per nulla impulsive dimissioni di Prandelli, il mister della salvezza genoana di due stagioni fa, è sordo nei confronti dei suoi sentimenti lacerati: un uomo che con alta signorilità risolve il contratto con il calcio italiano.

Non resti inascoltata, o peggio travolta da altri echi mediatici da bigiotteria, questa lezione fiorentina d’incredibile dignità, d’amore e di rispetto per la propria vita giacché non si tratta di un unicum da liquidare con superficialità. Lo scrisse Aldo Agroppi, che con il Genoa vinse il primo Viareggio nel ’65, in un consigliatissimo libro del 2017 che raccolse le angustie emotive che possono arrivare ad attanagliare un professionista. Nel calcio di oggi, prono verso l’ideale talebano della vittoria a tutti i costi insegnata già ai ragazzi dei vivai trascurando la capacità formativa della sconfitta (Bielsa dixit), nessuno può permettersi di essere debole. É la legge della selezione naturale dalla quale prendere le distanze muovendo veloci passi verso una crescita culturale: l’uomo, e non più il denaro, al centro. Forse Prandelli ha fatto in tempo e ha risparmiato il proprio corpo e la propria mente da ulteriori dannose battaglie. É sceso dalla lizza, è tornato a essere Cesare. Anzi, Claudio Cesare. Un amico fragile cui tendere la mano.

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.