Parlando del naufragio del Genoa

Nel ricordo di Faber, scomparso ventitré anni fa, la lettura del difficile momento del Grifone

De André Genoa
La bandiera di Fabrizio De André sventola in Gradinata Nord (foto di Genoa CFC Tanopress)

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Per i tempi genoani che corrono servirebbe un grembiule antiproiettile tra il giornale e il gilet, come lo indossava il macellaio della London Valour prima che il libeccio la desse in pasto agli scogli. Dopo la drammatica vittoria dello Spezia, città famosa per i muscoli nostrani venduti al mercato del pesce il cui sbragiare fa da tappeto in “Creuza de mä”, per il Genoa il vento è già lupo e il mare sciacallo. I versi poetici di Fabrizio De André, scomparso ventitré anni fa, sono straordinariamente modulari rispetto alla realtà, franchi e capaci di vita autonoma se estrapolati dall’impianto organico e complesso della canzone d’autore: essi sanno camminare da soli e sono messaggeri infallibili. Domenica i volti dei tifosi del Grifone assomigliavano a teschi di cera o, come nella potente “Preghiera in gennaio” scritta per Tenco, erano migliaia di facce bianche spaventate da una squadra irriconoscibile e svuotata del proprio dna.

A coloro che scommettono sulla retrocessione come quel tale che mise incinta la figlia del droghiere, o a quelli che ridono delle disgrazie del Genoa come il paralitico al circo Togni quando l’acrobata sbaglia il salto, a costoro è bene che non siano regalate terre promesse a chi non le mantiene. Nella storia del Genoa, “Rimini” non è soltanto un brano deandreiano che tratta il tema dell’aborto: è anche l’ultimo atto della Serie C del ’71, il “campionatissimo” con cinque liguri e 55mila genoani a festeggiare la promozione in B, affluenza che oggi si raggiungerebbe soltanto sommando due mesi d’incassi al botteghino del Ferraris. Chi c’era assicura che la voglia di fare festa rendeva l’aria talmente carica di elettricità da far accendere i lampioni di Genova. Quel Genoa allenato da Silvestri, la cui centralità nella storia del club più antico d’Italia è parecchio sottovalutata, non aveva campioni ma un’umiltà da riscoprire.

Passi la rivoluzione necessaria per abbandonare e mai rimpiangere “La cattiva strada”, a chi diceva è stato un male, a chi diceva è stato un bene, conviene rammentare alla holding 777 Partners di usare più attenzione del Bombarolo per non finire giustiziata sul portone. Il Genoa non sa più giocare da Grifo: è una squadra tanto rinunciataria quanto isterica, di rigorosa illogicità, senza comandi e comandanti, che inizia a sentire il rumore dell’acqua mentre sale alla gola, che stringe i fianchi come nell’alluvione raccontata in “Dolcenera”. Mancano diciassette partite a maggio e per la salvezza servono circa otto vittorie: sinora la creatura zoppa di Enrico Preziosi, che Spors tenta di correggere, ha vinto una partita su ventuno e sta naufragando con Shevchenko, il timoniere debuttante che non conosce rotte. Eppure nella tempesta resta vivo nei tifosi un frammento di speranza, evasione dalla perfida realtà. Vedrai, anche la neve se ne andrà domani. Le gioie del passato rifioriranno.

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