Non siamo, non siamo, non siamo. É l’urlo che ciascun genoano vorrebbe estirpare dalle proprie corde vocali per renderlo corpo e manifesto. Un derby dopo, e dopo il derby, l’animo dei più era sconfortato, per non dire sconfitto, da ciò che gli occhi hanno visto in campo e nelle sue pertinenze. Calci, poco calcio. I sorrisi tirati e ipocriti di chi, davanti all’ignobile comandamento ‘the show must go on’, si prostra e finge che lo spettacolo farà il suo corso. Quella del derby, meglio derbaccio, è stata una notte cilena nella quale non si contano davvero i feriti e i danni. Pagheranno Genova e i suoi cittadini, anche quelli che non dovrebbero. Chiuderanno per un turno lo stadio Ferraris, benché al suo interno non sia accaduto niente, imponendo un divieto cieco e sommario che confuta la capacità di governo, per cui il danno sarà duplice.
Genova non è uno sfregio reputazionale a sé stessa. Era Superba, ora è l’ultima della classe. Un film di seconda visione. Davvero la città non sa più contenere e gestire gli eccessi del derby più latinoamericano d’Italia? É verosimile che tre, quattro centinaia di gotici incappucciati dòminino i quartieri quasi fossero i capo di una rivolta (in)civile? Rincresce che per ore costoro abbiano corso continuamente per le strade per darsi la caccia, faticando come muli sotto spessi passamontagna e pesanti vesti nero pece, mentre il greto del Bisagno li aspettava in secca. E poi le pezze avversarie esibite come lo scalpo del nemico, il silenzio glaciale e tellurico di chi assiste all’ostensione. Con i venti di guerra che spiravano fin dagli episodi dello scorso maggio è stato un miracolo che nessuno sia morto. Non esiste ragione per cui oltre venticinquemila persone siano trascinate nel pericolo voluto da un informe plotone del male.
I provvedimenti e le sanzioni non placheranno ciò che le frange ultraestremiste si erano promesse e hanno quasi mantenuto, poggiando le proprie azioni su un dato allarmante: la violenza è giovanile. L’età dei violenti di Genova è stata incredibilmente bassa. Attorno a tale clima barricadiero, latente e non ancora sopito, fa da contraltare la saggia decisione del Genoa di non far uscire dal convitto i membri del proprio vivaio. Il ritorno della stracittadina dopo ventisette mesi di latitanza doveva essere una festa: è stato il derby del pesto. La partita è scivolata presto dietro le quinte, senza alcun clamore. Una recita afona priva di veri attori; sconclusionata, così spietata e così contraddittoria nel ribaltare i minimi vantaggi, e cessata dopo una serie sfibrante di rigori calciati a mezzanotte. Dio ha scampato il pubblico da mezz’ora di supplizi. Un vuoto assordante, una vertigine lunga quanto un urlo. Non siamo, non siamo, non siamo.