Massimo Prati: «Quell’indimenticabile espressione ridente ed estasiata di Tullio Solenghi al derby di Branco»

Il ricordo dello scrittore rossoblù sulla gara del 25 novembre 1990 con la prima cartolina di Natale in cui, a partire dalla presenza del celebre attore tra il pubblico, alcune riflessioni sulla comicità genovese si incrociano con la rievocazione di quella stracittadina

Tullio Solenghi (Foto del sito ufficiale dell'attore genovese)

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Non sono uno specialista in materia, e quindi niente di più facile che io mi possa sbagliare, ma mi sembra che in Italia ci siano quattro grandi scuole di comici. Le cito in ordine sparso: la fiorentina, la genovese, la romana e la napoletana. Ovviamente ci sono grandi comici in molte altri parti d’Italia, a Milano come a Palermo; ma in questi casi, a mio parere, non si può parlare di scuole che hanno alla base lo stesso tipo di narrazione. Gino Bramieri, Diego Abatantuono, Ale e Franz sono dei divertentissimi comici, ma non mi sembra che tra loro ci sia molto in comune.

Per “scuola di comici”, intendo temi, discorsi e metodi d’espressione che siano condivisi, una “continuità cronologica” che unisce nel tempo generazioni diverse, ed una formazione comune ( molti comici genovesi si sono formati nella compagnia di Gilberto Govi prima e alla scuola di recitazione del Teatro Stabile poi, così come molti campioni romani della risata sono venuti dall’Accademia Silvio D’Amico o, più recentemente, dalla scuola di Gigi Proietti, e molti grandi umoristi napoletani sono passati per la scuola di De Filippo).

La scuola toscana fa un po’ storia a sé. La comicità a Firenze, a mio parere, è meno aperta sul mondo. Una volta seguendo un documentario in TV che trattava di tutt’altro argomento, fui colpito da un commento fatto da un fiorentino: parlando della sua città diceva che Firenze è passata alla storia come “la Culla del Rinascimento” ma in realtà è una città dall’anima medievale.

Io ho vissuto quattro mesi a Firenze. Ogni giorno andavo da Campo di Marte a San Frediano, passando dal centro, e scegliendo sempre un percorso diverso. Nel tempo libero visitavo il Duomo e Santa Croce, la Chiesa di Santa Maria Novella, quella del Santo Spirito, i Giardini di Boboli e la Fortezza perché rappresentano alcuni dei luoghi più interessanti da vedere nella capitale della Toscana. Ma non disdegnavo neppure le locande del centro, le cantine di Fiesole o le case del popolo nella zona di Ponte a Greve: luoghi più adatti per conoscere le caratteristiche della città. Alla fine penso di essere riuscito a cogliere alcuni tratti tipici della gente del posto.

A Firenze, ho avuto modo di assistere ad una partita di calcio in costume giocata, com’è tradizione, in piazza Santa Croce. E la competizione, vista dal vero, è davvero impressionante: si danno botte da orbi, ma proprio sul serio. L’evento sportivo rievoca l’assedio di Carlo V del 1530, ma quel tipo di calcio a Firenze si giocava già nel tardo Medioevo. E nelle taverne o nei chioschi lungo le rive dell’Arno si mangia ancora la “ribollita” ed il “lampredotto” probabilmente come si faceva sette o otto secoli fa. È per questi motivi che condivido la definizione di città dall’anima medievale, proposta da quel fiorentino durante un servizio televisivo in cui si parlava del capoluogo toscano.

E arrivo a dire che anche il modo di ridere, e di far ridere, del fiorentino ha qualcosa di medievale. Una comicità carnale, bestemmiatrice, dissacrante o semplicemente paesana (del resto Roberto Benigni, non ha forse iniziato la sua carriera televisiva di comico dentro una stalla?). E se dico comicità paesana, dissacrante e carnale non è certo per sminuirne il valore. Al contrario, la grandezza comica di Roberto Benigni è incontestabile. Ma io trovavo divertenti anche i Giancattivi di “A Ovest di Paperino”. In tutti i casi, accanto a tratti in cui i riferimenti al sesso sono veramente pesanti, nella comicità fiorentina ci sono anche momenti in cui le donne, o la sessualità, sono trattate con delicatezza, amabilità e, simpatia o più semplicemente con leggerezza. Penso allo stesso Benigni de “Il Piccolo Diavolo” o ancora ad Alessandro Benevenuti di “Belle al Bar”, e a Leonardo Pieraccioni de “Il Ciclone”.

Però Roma, Napoli e Genova, a mio parere, hanno in comune una maggiore apertura verso l’esterno, sebbene i comici di ciascuna di queste città abbiano tratti specifici diversi gli uni dagli altri.

Roma ha la comicità della “Roma Capoccia”, di chi essendo della capitale si sente un po’ superiore. Come nella scena del film di Monicelli “La Grande Guerra” in cui, alla visita militare, Alberto Sordi (il romano Oreste Jacovacci) cerca di fregare Vittorio Gassman (il milanese Giovanni Busacca). Ma nella capitale c’è anche l’ironia di chi vivendo a contatto col supremo potere politico e religioso ne conosce i tanti vizi e le poche virtù: è la comicità di Nino Manfredi e delle sue pasquinate (gli scritti satirici contro il potere attaccati ad una statua di Roma), che si possono apprezzare nel film dal titolo “Nell’Anno del Signore”.

In altri divertentissimi casi, quello del cupolone è l’umorismo popolare ma brillante ed arguto di Aldo Fabrizi, Paolo Panelli o Gigi Proietti per citare dei “mostri sacri”, oppure di Enrico Brignano e Maurizio Battista per fare due esempi recenti. Infine, c’è la comicità buzzicona e periferica dei borgatari: da Carlo Verdone del “famolo strano”, alla Lucia Ocone dell’infermiera Mimma, quella dei “pippi”, da Corrado Guzzanti dello studente “Lorenzo” di “maddechéaò”, al “chi è Tatiana?” di Gabriele Cirilli (che, in realtà, credo sia abruzzese di nascita, ma interpreta magistralmente il “coatto de Roma”).

La comicità di Napoli è la filosofia di tutto un popolo. La filosofia della strada simpaticamente riassunta nel film di Luciano De Crescenzo “Così Parlò Bellavista” : «A libertà… a libertà … pure o pappavallo l’adda pruvà ». È il senso dell’umorismo di chi conosce il mondo perché, nel corso dei secoli, ne ha viste di cotte e di crude e sa che si deve arrangiare per sbarcare il lunario, anche se questo vuol dire a volte cercare soluzioni improponibili, al limite dell’impossibile.

Basti pensare alla genialità del grande Troisi. nella scenetta del “Diluvio Universale”. ai tempi del trio della “Smorfia”. E così quando Noè-Lello Arena gli dice che tutti gli animali sono ormai saliti a bordo, Troisi per potersi salvare si inventa un animale tanto provvidenziale quanto immaginario: “il minollo”. La Napoli che sa far piegare dalle risate è la verve di Totò, di chi è “uomo di mondo”, e non solo perché “ha fatto tre anni di militare a Cuneo”; la comicità di “accà nisciuno è fesso” e della spartizione del bottino di “Totò le Mokò”: «Una a me e una a te… » e alla fine è proprio il comico napoletano che intasca tutto il malloppo; oppure è l’umorismo mariuolo della Tototruffa e della scena della vendita della Fontana di Trevi ad un turista italo-americano. O, ancora, la comicità di Peppino De Filippo e Nino Taranto se vogliamo parlare della vecchia generazione di comici partenopei e di Vincenzo Salemme se vogliamo parlare di artisti contemporanei.

Anche la comicità di Genova è basata sulla conoscenza del mondo; perché per il mondo il genovese ci ha navigato (se ha fatto il marinaio) o perché ha conosciuto equipaggi di ogni razza e paese (se ha lavorato nel porto). È una comicità autoironica: Gilberto Govi è stato il primo a prendere in giro la tircheria dei genovesi, quando in una sua commedia – se ben ricordo si tratta di “Pignasecca e Pignaverde”- fuma maldestramente il sigaro tenendolo completamente in posizione verticale, perché così se ne rallenta la combustione e la fumata, durando più a lungo, in un certo senso costa di meno. E, a proposito di tirchieria e di capacità di autocritica, viene subito in mente anche la battuta di Beppe Grillo: “Se gli elenchi del telefono si pagassero, a Genova avremmo ancora quelli del ’26”.

L’umorismo alla genovese è un po’ cinico, disincantato, sempre un po’ diffidente. È l’approccio alla vita di chi, per secoli, ha commerciato per mare e sa che può perdere tutto in un solo frangente (attacco pirata, naufragio, avaria, uragano); non per niente dalle nostre parti si dice: «La vita è una tempesta, prenderlo nel culo è un lampo». Altre volte basiamo il nostro umorismo sul mugugnare, sul fatalismo, sul pessimismo. «Chi no cianze, no tetta»: il neonato che non piange (cioè che non si lamenta) non sarà allattato dalla sua mamma; oppure «megio duî citti de meno ma mugugno libero»: in una vertenza economica, a volte è meglio rinunciare a qualcosa di irrilevante (due centesimi), ma garantirsi il diritto di poter continuare a lamentarsi. È in qualche modo la comicità dei Cavalli Marci di “pessimismo e fastidio”.

All’inizio parlavo di susseguirsi di generazioni di comici nel corso del tempo. Per quanto riguarda Genova, potrei dire: Gilberto Govi, Gian Fabio Bosco (del duo “Ric e Gian”), Beppe Grillo, Tullio Solenghi, Carlo Pistarino, Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Andrea Di Marco, Carlo Denei, Enrique Balbontin, Daniele Raco e Maurizio Lastrico, il cui divertente sketch dal titolo «L’infratto » ha un finale che, agli occhi di un genoano, ricorda la cessione di Diego Milito.

Per Beppe Grillo non saprei dire ma, in tutti gli altri casi, è bello pensare che si tratta di persone che oltre ad essere dei bravi comici sono anche dei tifosi genoani. Per completezza d’informazione, devo comunque ammettere che un paio di comici dell’altra sponda calcistica ci sarebbero anche; ma il ragioniere Fantozzi non mi sembra molto rappresentativo della nostra città, infatti le vicende che lo riguardano non sono ambientate a Genova. Per cui forse, nella sponda avversa, degno di nota ne rimane solo uno, che tra l’altro è molto popolare a livello televisivo.

Ma, in generale, i tifosi dell’altra squadra di calcio della nostra città sono così poco rappresentati dal mondo della risata e della canzone di Genova che, in occasione della festa del loro scudetto, furono obbligati ad invitare a suonare un noto cantautore genoano, il cui nome preferisco non menzionare. Mi limiterò a dire, a scanso di equivoci, che non si trattava nè di Fabrizio de Andrè (penso che non avrebbe mai accettato l’invito), né di Francesco Baccini, autori – tra l’altro – di uno pezzo accattivante e simpatico, dal titolo “Genova Blues”, che ha alcuni versi dedicati ai nostri amati colori: «Genoa you are red and blue». Tra l’altro, a proposito di musica, negli ultimi anni alla tradizionale schiera di cantautori genoani si è aggiunta una serie di artisti della scena rock e pop britannica e, più in generale, internazionale : da Jack Savoretti a Sergio Pizzorno dei Kasabian. Puoi anche nascere o crescere all’estero ma le radici non si scordano mai e tantomeno la fede calcistica. Pizzorno l’ha ereditata dallo zio, Savoretti dal bisnonno e dal nonno che, tra l’altro, era uno dei partigiani firmatari, all’atto della liberazione di Genova nel 1945, della dichiarazione di resa tedesca. E poi, in un altro angolo di mondo e con un altro stile di musica, c’è l’omaggio ai nostri colori anche di Manu Chao, che nel video « La Chinita » sfoggia una bellissima casacca rossoblù, con ben visibile un Grifone sul petto.

Io non conosco personalmente la maggior parte dei comici genovesi sopraccitati, ma fa piacere andare allo stadio e trovare accanto a te, a condividere gioie e dolori del Grifo, persone che magari la sera prima, davanti alla TV, ti hanno fatto morire dal ridere. Anche se poi, a distanza di tempo, non ti ricordi neppure in quale partita ti è capitato di averli incontrati.

Ma c’è un caso, riguardante l’incontro di un comico genoano allo stadio, che risale ormai a molti anni fa e che, data l’importanza del match, non scorderò mai. Lo stadio era appena stato ristrutturato per i campionati mondiali di Italia ’90. Io, fino ad allora, avevo quasi sempre visto i derby dalla Gradinata Nord, ed in un paio di casi dal settore centrale: il settore “distinti” (come, ad esempio, il derby di andata del ’78, vinto con una doppietta di Oscar “Flipper” Damiani). Invece quell’anno mi mossi troppo tardi e alla fine trovai solo dei posti in tribuna. Così acquistai tre biglietti, per me e per un paio di amici : David e Armando.

Era il 25 novembre del 1990, Alla fine di quella stagione i doriani avrebbero vinto il loro primo ed unico scudetto e si sentivano un’invincibile armata, una specie di corazzata che ci avrebbe spazzato via senza troppa fatica. Insomma per loro quella partita sarebbe stato un po’ come il gioco del gatto col topo. E loro, presuntuosamente, ci avevano già attribuito il ruolo del topo. I genoani un po’ “datati” ricorderanno sicuramente una nostra canzone dell’epoca in cui, a posteriori, ci beffavamo di quella loro arroganza. Arroganza per cui erano arrivati a sbilanciarsi sul numero incredibile di gol che ci avrebbero rifilato: “Quattro a zero, cinque a zero, scommettevano sui gol. Ma finita la partita si sentiva dalla Nord…”.

Io uscii di casa per andare a quel derby e incontrai un ex-compagno di scuola doriano: aveva il sorriso tronfio e arrogante di chi sa di essere favorito. «Guarda, che oggi vinciamo», gli dissi. E ricordo che lui mi rispose: «Ma come fate a vincere? Noi abbiamo Vialli e Mancini. Voi avete Eranio e Torrente: dei giocatori che sarebbero la rovina di qualunque squadra». Mi ricordai del suo particolare riferimento ad Eranio, proprio in tribuna, quando vidi il nostro Stefano fare un numero in mezzo a tre avversari ed infilare la loro porta, proprio sotto la gradinata dei blucerchiati. Allora mi ritornò in mente il mio ex-compagno di scuola e pensai «Eranio è sì la rovina, ma della tua squadra e non di una qualunque». Poi, nel secondo tempo, ancora sotto la Sud, rigore per la Sampdoria. Tanto per confermare la strofa immediatamente successiva della canzone che ho appena citato: “Luca Vialli e Bobby gol segnan solo su rigor”.

Ed infatti quel giorno Vialli segnò al quarantanovesimo, ma solo su rigore. E arriviamo al 74′ e alla mitica punizione del brasiliano che tirava bombe da lontano. Punizione a nostro favore, leggero colpo di tacco all’indietro di non ricordo chi (Carlos Aguilera? Mario Bortolazzi?) e Claudio Ibrahim Branco che scarica, sotto la Nord, un tiro che sarà immortalato e riprodotto in migliaia di cartoline per gli auguri di Natale da inviare ad amici e parenti, e soprattutto ai “cugini”. Iniziando così una tradizione che sarà ripresa in anni recenti nel derby “prenatalizio” di Milito vinto tre a zero e nel successivo, con marcatori diversi ma con identico risultato.

Al momento del tiro di Branco, essendo in tribuna, avevo spostato il mio sguardo a sinistra, verso la Nord, e fu allora che, su quella immaginaria linea diagonale fra me e la porta, a meno di un metro da me, notai l’espressione ridente ed estasiata di Tullio Solenghi.

Mi capita a volte che il sentire un profumo o un odore particolare mi riporti indietro nel tempo, ad una situazione lontana negli anni, in cui avevo vissuto lo stesso tipo di sensazione olfattiva. Per esempio, il fatto di sentire l’odore di legna bruciata mi riporta spesso a quand’ero bambino, quando nella casa delle vacanze, sul Monte Beigua, bruciavamo la carbonella per fare la carne alla griglia.

E da quel Sampdoria-Genoa vinto due a uno, mi succede qualcosa di analogo, però a livello visivo, col noto attore e comico genovese Tullio Solenghi. È qualcosa di strano e piacevole al tempo stesso: vedo il suo volto, durante uno monologo alla TV, o in una scenetta del trio, e appena lo vedo riavvolgo il nastro del derby del 1990; così, in uno strano flashback, rivivo ancora la magica traiettoria della “bomba” di Branco.

Comunque, aldilà di questo episodio, è sempre bello avere a disposizione un arsenale di comici che condividono la stessa bruciante passione per il vecchio Grifo. E a proposito di autoironia genovese, in un’intervista televisiva Luca Bizzarri ha confessato che nel creare uno dei suoi personaggi più divertenti (l’irascibilissimo Fede della “Carogna”) si era basato su un altrettanto irascibile tifoso del Genoa. Ma la cosa è ancora più divertente quando, in qualche festa della nostra tifoseria o anche in altri contesti, quell’arsenale di comici e quell’ironia sono utilizzati per strapazzare senza pietà gli odiati doriani.

Giusto due ultimi esempi, per chiudere con l’argomento. Enrique Balbontin, alla festa per il Genoa in Europa, domanda al pubblico genoano raccoltosi in piazza della Vittoria: “Avete letto il libro di Antonio Cassano? Risposta all’unisono: “Nooooooooo!!!”. Ed il comico, di rimando: “Tranquilli, nemmeno lui!”. Ma una battuta, forse ancora più velenosa, l’ho letta recentemente su internet, ed era attribuita a Pistarino. Alla stazione centrale di Genova, tra un partenza ed un ritardo, si sente un annuncio inquietante: “Attenzione! Attenzione! S’è perso un bambino doriano”. E dopo una brevissima pausa, l’annunciatore precisa: “Guai a chi lo riporta!”

Massimo Prati

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