Massimo Prati – Malattia Genoa, empatia Genova

Il racconto dello scrittore genovese: «La crudele e piacevole malattia di cui parlava Fabrizio De Andrè, nella mia famiglia è stata diffusa da due zii genovesi, Luigi ed Attilio»

De André Faber Genoa
Faber (dalla Fondazione De André, foto di Guido Harari)

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Nella tappa genovese della tournée di “Le Nuvole”, Fabrizio De Andrè iniziò il concerto dicendo: “Io ho una malattia”. Ora, un tale esordio avrebbe inquietato qualsiasi uditorio, quindi è facile immaginare il silenzio glaciale del pubblico di Genova, venuto per ascoltare il concerto.

Ma subito dopo, il grande cantautore tranquillizzò tutti tirando fuori una sciarpa del Genoa, e chiarendo così di quale malattia si trattasse. Se penso a quella sua appassionata dichiarazione d’amore per il nostro amato Grifone, mi viene voglia di provare a ricordare con che pezzo aveva iniziato il concerto. Chissà,  forse era stata la canzone genovese dal titolo “A Çimma”, che inizia con degli splendidi versi poetici, tra i più belli che l’umanità abbia mai creato: “Ti sveglierai sull’indaco del mattino, che la luce ha un piede in terra e l’altro in mare”.

La crudele e piacevole malattia di cui parlava Fabrizio De Andrè, nella mia famiglia è stata diffusa da due zii genovesi, Luigi ed Attilio. Quest’ultimo, in realtà, lo consideravamo un po’ come un “secondo nonno”, perché il mio vero nonno paterno morì quando mio padre aveva undici anni e fu quel mio zio ad occuparsi di lui quand’era ancora un bambino.

Mio zio Attilio era un “camallo”, uno scaricatore di porto, nato a Genova nel 1900.  Aveva iniziato a vedere le partite di calcio negli anni Venti, ed era il solo in famiglia a potersi vantare di avere visto il Genoa degli scudetti. Era sposato, ma senza figli. Aveva un buon stipendio e pochissimi vizi: non beveva, non aveva la macchina, non andava in vacanza al mare, non aveva la casa in campagna. Gli unici lussi che si era permesso nella sua vita, a partire dalla fine degli anni Quaranta, erano due abbonamenti di tribuna centrale. E a me sembrava davvero strano che, un  tipo come lui, avesse fatto non soltanto  l’abbonamento del Genoa, ma anche quello della Sampdoria. Ai giorni nostri credo che questo sia inconcepibile o quantomeno inusuale. Ma per lui, il piacere di vedere giocare a calcio prevaleva sulla rivalità cittadina.

Era nato e cresciuto nel centro storico, dove aveva vissuto fino a quando, a causa di una speculazione edilizia che non risparmiò neppure la casa di Niccolò Paganini, il suo quartiere fu raso al suolo e lui fu costretto a traslocare. La ricerca di una nuova sistemazione si era concentrata sin da subito nel quartiere di Marassi, e alla fine trovò casa in Via Tortona, cioè a meno di dieci minuti a piedi dallo stadio Luigi Ferraris. E nel decidere l’acquisto di quell’appartamento, l’ubicazione vicino allo stadio non credo proprio che fosse  stata del tutto irrilevante, anzi.

Così verso la metà degli anni Sessanta, raggiunta l’età della pensione, ogni domenica, che giocasse in casa il Genoa o la Sampdoria, mio zio partiva a piedi da via Tortona per andare allo stadio a vedere  “a partia de ballon”.

Mio zio Luigi, nato anche lui a Genova nel 1909, aveva invece la singolare caratteristica, tramandata di generazione in generazione, di conservare con una cura che direi maniacale tutti i documenti e gli oggetti appartenuti agli antenati della famiglia. Un giorno, mentre ero a casa sua,  fu preso come da una ventata di nostalgia. Aprì lo scrittoio e ne tirò fuori una serie di buste, cartelle e cofanetti. Dentro c’erano alcune medaglie di qualche bisnonno, che risalivano alle guerre d’indipendenza; medaglie che conservo ancora. E ricordo  che mi mostrò anche i fogli di congedo di qualche altro antenato: erano talmente vecchi che risalivano ad un periodo precedente all’unificazione d’Italia; un periodo in cui Genova faceva ancora  parte del Regno di casa Savoia, infatti su quei documenti si vedeva bene l’intestazione del Regno di Sardegna. Ma a colpirmi ancora di più  fu che, insieme a tutte quelle cose dal sapore antico, mio zio Luigi conservava ancora una tessera di socio del Genoa degli anni Trenta.

La caratteristica comune a quei due  miei parenti era che entrambi erano nati, all’inizio del secolo scorso,   nella zona più antica di Genova, anche se agli estremi opposti. Mio zio Attilio era di Via Madre di Dio, che si trovava nella parte orientale della città vecchia;  mio zio Luigi invece era  nato in Piazza dello Statuto, vicino a Via Pré, nel tratto più occidentale dei vicoli. Ma tutti e due erano, in qualche modo, dei “genovesi integralisti”, ed essendo cresciuti nel centro della nostra città, ritenevano che quelli nati in periferia, come ad esempio i sampierdarenesi,  non fossero dei genovesi al 100%.  Ma, intorno ai tredici anni,  dopo aver letto un libro sulla storia di Genova, mi resi conto che le loro case si trovavano al di fuori della cinta muraria del dodicesimo secolo, cioè fuori dal cuore più antico della “Superba”. Mio zio Attilio abitava aldilà di Porta Soprana e di Ravecca, e mio zio Luigi stava all’esterno di Porta di Vacca, o dei Vacchero, (quella che dà sulla celebre Via del Campo della canzone di Fabrizio De Andrè). Così per scherzare un po’ su quell’eccessivo senso di genovesità, mi divertivo a fare notare ai miei zii che, dopo tutto, si sarebbe potuto trovare qualcuno nato ancora più al centro di Genova e che, di conseguenza, c’era sempre qualcuno più genovese di loro. Non è che la prendessero proprio bene, ma alla fine riuscivo comunque a farli sorridere.

A loro discolpa va detto che sono gli stessi ponentini della nostra città, e anche quelli che abitano nella zona a nord-ovest della Lanterna, a non sentirsi genovesi al 100%. Genova è davvero una metropoli strana. È una città che ha un suo centro nevralgico e che, al tempo stesso, è policentrica. Ragione per cui chi abita fuori dal centro storico della città, anche se solo di pochi chilometri, sente di vivere in una comunità indipendente.

Non credo che a nessun milanese di Lambrate verrebbe in mente di dire: “Vado a Milano”, mentre da casa sua si reca a Piazza del Duomo. Così come penso che nessun Trasteverino direbbe “Vado a Roma”, se dal suo quartiere deve andare a Piazza Navona a trovare un amico. Il tratto finale di Sampierdarena è a quattro fermate di bus dal Porto Antico di Genova e da Rivarolo alla centralissima De Ferrari, con il metrò, sono cinque minuti. Eppure un rivarolese o un sampierdarese, al momento di fare questi brevissimi spostamenti   diranno “Vado a Genova”  e non  “Vado in centro”, indicando così inconsciamente di sentirsi abitanti di un altra realtà culturale e geografica.

Tutto ciò ha ovviamente ragioni storiche. La “Grande Genova”, a livello urbanistico, fu realizzata nella seconda metà degli anni Venti, quando alcune colline, che separavano la Valpolcevera ed il Ponente dal centro della città, furono completamente abbattute. A partire da quel momento, grazie alla costruzione di una grande arteria stradale, che tra l’altro comportò la distruzione del campo di calcio della Sampierdarenese, la città ebbe un sistema di trasporti e comunicazione maggiormente integrato.

Ma fino ad allora i quartieri di Genova non erano stati quartieri, bensì cittadine indipendenti, con il proprio comune, il proprio teatro, il proprio albergo e la propria stazione (a Genova si contano una ventina di stazioni ferroviarie all’interno del territorio metropolitano, credo che per una sola città sia quasi un record).

Ma torniamo ai parenti ed affini: io, le mie sorelle, mio padre e mia nonna paterna siamo di Genova. Ma la nostra famiglia è anche uno strano miscuglio di varie regioni e città del nostro paese: in me c’è anche un po’ di Sardegna e di Veneto, di Calabria e di Emilia-Romagna, .

Il mio bisnonno paterno era un nostromo sardo, dell’isola di San Pietro. E quella di Carloforte è una storia piena di fascino, che merita di essere accennata, seppure sinteticamente.

Nel sedicesimo secolo una comunità di genovesi (anzi di pegliesi, per la precisione) si stabilì nell’isola di Tabarca, a qualche centinaio di metri dalla costa nordafricana, ed a un centinaio di chilometri dall’importante città di Biserta, in Tunisia. A quei tempi Tabarka era un’isolotto ma, nel corso dei secoli, a causa della formazione di un istmo, si è trasformata in penisola, ed oggi fa parte della terraferma. Lì, per circa due secoli e mezzo, gli abitanti dell’isola vissero tranquillamente. Fino a quando i rapporti con il “Bey” di Tunisi (il reggente della città) si deteriorarono ed iniziò una specie di diaspora. Alcuni  tabarchini furono costretti a convertirsi ed “integrarsi” nella comunità tunisina; altri rientrarono a Genova; altri ancora furono fatti prigionieri e riscattati dal re di Spagna, per questo si stabilirono a Nueva Tabarca, vicino ad Alicante; ma la maggior parte di loro fondò una nuova colonia di mare nell’Isola di San Pietro, nella costa sud-occidentale della Sardegna.

E da allora, nonostante siano passati quasi trecento anni, i rapporti tra  Genova  e quella comunitá non si sono mai più interrotti. La prima volta che visitai  Carloforte, mi fermai a riposare nella piazza centrale. In quel momento della giornata, Piazza Pegli era semideserta. C’era solo un vecchietto con un nipotino, in una panchina vicino alla mia. Il bimbo fece come per allontanarsi e allora suo nonno, con voce bassa e decisa, gli disse : “Vegni chi” (“Vieni qui”). Ma, nonostante quel primo richiamo, il bambino tentò di allontanarsi ancora di più, dirigendosi pericolosamente verso la strada, e allora suo nonno fu costretto ad alzare la voce: “T’ho  dïto de vegnî chi” (« Ti ho detto di venire qui »). Alla fine, il secondo messaggio fu recepito ed il bimbo si rimise a giocare al centro dei giardini.

Ricordo che provai una certa emozione di fronte a quella scena. Ero in un’altra regione d’Italia, a centinaia di chilometri da casa mia e le persone del posto parlavano il dialetto della mia città. È la stessa sensazione che mi capitò di rivivere in Corsica, a Bonifacio, quando per caso mi fermai da un benzinaio ed ebbi occasione di sentire i frammenti di una conversazione nella lingua del posto: due abitanti di quella zona stavano chiaccherando in “bonifacino”, una variante del nostro dialetto ancora oggi  parlata nel sud di quella che, giustamente, è soprannominata l’Île de Beauté.

I rapporti tra Genova e le sue ex-colonie o le sue  comunità di emigrati sono rapporti oramai secolari che hanno retto alla prova del tempo, come quelli che legano Genova a Buenos Aires. È per questo che, ancora ai giorni nostri, esistono il Genoa Club Carloforte, il Genoa Club Monte Carlo ed Il Genoa Club della Boca. Ed è per questo che alla Bombonera di Buenos Aires potrete notare, tra una marea di bandiere con i colori del Boca Juniors, qualche “chaval” con la maglia del Genoa.

Il mio bisnonno era dunque  un nostromo originario di quell’affascinante isolotto della Sardegna. A casa ho ancora il dagherrotipo che lo ritrae nella divisa da marinaio. Nel 1897 iniziò a lavorare per una compagnia di navigazione che batteva le rotte di tutti i mari. Sbarcò a Genova e fu letteralmente conquistato dalla città. Decise che quello sarebbe stato il luogo dove trovare casa, mettere su famiglia e riposare, al ritorno dai viaggi in mare. L’anno dopo mia nonna sarebbe nata in una casa dei vicoli della nostra città. E mi piace pensare che, mentre lei emetteva i primi vagiti, il Genoa vinceva il suo primo scudetto. Fu la prima squadra a vincere un campionato di calcio italiano, battendo ai supplementari l’International di Torino. Era l’8 maggio del 1898. E a Genova, 112 dodici anni dopo, nel derby di ritorno del 2010, con una bellissima e gigantesca coreografia, abbiamo reso omaggio al mitico leader di quello squadrone, che era formato da Baird, De Galleani, Spensley, Ghiglione, Pasteur I, Ghigliotti, Leaver, Bocciardo, Dapples, Bertollo e  Le Pelley.

Ma, riprendendo il discorso dei parenti nati al di fuori dei confini della Lanterna, mi viene anche in mente il mio nonno paterno, che era nato a Bologna nella contrada di Porta Lame. Era un bravo artigiano ed in gioventù aveva fatto un po’ il giramondo, lavorando in Svizzera, in Austria ed in Germania.  Nel 1930 arrivò a Genova e, come spesso mi ha ripetuto mio padre, anche lui si innamorò della città.

E tutto questo nonostante il fatto che ai quei tempi tra genovesi e felsinei non corresse buon sangue. I miei concittadini di allora avevano mal digerito il furto dello scudetto del ’25 ai danni del Grifo. La storia del finale di quella stagione è una vicenda dai contorni epici e loschi allo stesso tempo: 5 spareggi giocati a Bologna, a Genova, a Milano, a Torino e poi ancora a Milano. Il Bologna appoggiato dai gerarchi fascisti dell’epoca, in particolare in occasione del terzo spareggio, in cui furono inventati due gol a favore della squadra emiliana, affinché potesse almeno riottenere il pareggio, dopo che era andato sotto due a zero. I primi treni speciali dei Grifoni in trasferta  ed anche i primi incidenti tra tifoserie, con due supporter feriti a colpi d’arma da fuoco. Alla fine il Bologna vinse lo scudetto ma si può dire, senza ombra di dubbio, che si trattò di un furto. Qualche anno fa il quotidiano “The Guardian”, a proposito della ruberia subita dal Genoa in quell’occasione, la definì la più grande ingiustizia nella storia del football.

Insomma, c’erano tutti i presupposti perché mio nonno non si trovasse bene nella nostra città. Ed invece, nonostante tutto, se ne innamorò. E, più in particolare, si innamorò di una sua abitante. Così decise che avrebbe passato a Genova il resto della sua vita. Iniziò a lavorare nei cantieri  navali dove si stava costruendo il transatlantico “Rex”. Essendo un bravo ebanista, trovò facilmente lavoro presso una ditta che era stata incaricata di realizzare gli interni dei saloni  e delle cabine di quella nave.

Per chi non è addentro alle questioni riguardanti la marineria italiana, dirò semplicemente che il “Rex” era un transatlantico mitico: una specie di “Titanic” degli anni Trenta, ricordato anche in un celebre film di Fellini. Il “Rex” fu insignito del “Nastro Azzurro”, conquistato nel 1933, dopo che aveva battutto un record di velocità, fino ad allora detenuto da una nave tedesca: il “Bremen”. Il 10 agosto del 1933, la nave italiana salpò da Genova, si spinse fino allo stretto di Gibilterra e da lì, in quattro giorni, tredici ore e cinquantotto minuti, raggiunse New York.

La storia moderna e contemporanea di Genova  è sempre stata segnata dalla presenza di questi grandi giganti del mare. Il paesaggio stesso, il panorama della città ne è stato condizionato. Ai tempi di mio nonno si andava in porto e si ammirava il “Rex”, gli anni di mio padre furono quelli dell'”Andrea Doria”, ed io da bambino passavo in auto sulla strada sopraelevata e restavo incantato a guardare  la “Michelangelo” o la “Raffaello”. Poi in anni recenti ci sono state le navi della Costa Crociere e dell’MSC.

In tutti i casi mio nonno e mia nonna celebrarono il matrimonio a Genova nel ’33 e l’anno dopo sarebbe nato mio padre. Gli inglesi sono soliti dire,  “In each life, a little rain must fall” cioè: “Nella vita di ciascuno, un po’ di pioggia deve cadere”. È un simpatico giro di parole per dire che, per quanto tu possa essere fortunato, nella vita andrai comunque incontro a momenti difficili. E questo discorso, applicato agli umani,  purtroppo è valido anche per molte squadre di calcio o, quantomeno, è stato vero per quella a cui io tengo di più. E se la nascita della nonna paterna, nel ’98, era coincisa con l'”età del sole” dell’amato Grifone (cioè il ciclo dei sei scudetti in sette anni), riprendendo la “metafora metereologica” del proverbio inglese, potrei dire che la nascita di mio padre, avvenuta 36 anni dopo,  fu segnata dal primo “acquazzone”, vale a dire la prima retrocessione del Genoa in serie B, che si verificò appunto nel ’34. Io, essendo del 1963, sono invece nato nel periodo delle piogge monsoniche: dal 1965 al 1973 il Genoa si fece sette anni di B ed anche uno in C.

Ma aldilà degli alti e bassi della mia squadra del cuore, se in questa panoramica di genovesi, ho voluto parlare anche di due parenti nati fuori dai limiti urbani è perché, pur essendo uomini con percorsi diversi, quelle due persone avevano un denominatore comune.

Uno aveva girato il mondo,  l’altro aveva vissuto a lungo all’estero, però tutti e due si erano innamorati di questo nostro angolo di Mediterraneo, perché da secoli Genova è ovviamente la terra dei genovesi ma, per qualche strana alchimia, è anche un luogo elettivo del cuore di tutti quelli che,  nei confronti della nostra città, sentono di avere un’affinità talmente profonda da sconfinare nell’empatia.

Massimo Prati 

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Massimo Prati (Foto Rsi tv)
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