Il racconto di Massimo Prati: Un’altra Genova, un altro calcio

Il celebre scrittore genovese e tifoso genoano ci invia quotidianamente una serie di racconti con tanti riferimenti al mondo rossoblù. Iniziamo con i suoi ricordi giovanili e l'incontro con Emilio Caprile, recentemente scomparso

Caprile Genoa
Emilio Caprile (Foto Pianetagenoa1893.net)

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Da ragazzino, a livello di giocatore di calcio, non che fossi nulla di speciale, ma diciamo che me la cavavo. Intorno ai dodici anni, feci anche un provino a Pegli per il Genoa. Ma, se ricordo bene, il campo del Grifo per i ragazzini non era l’attuale “Pio” ma il “Morteo”, un  campo sul greto del torrente di Pegli, il Varenna, che fu “cancellato” negli anni Novanta, da una delle tante alluvioni che per decenni hanno afflitto la nostra città.

Urbanizzazione selvaggia, disboscamento, scarsa cura del territorio e a un certo punto la città non fu più in grado di fare fronte alle forti piogge autunnali. Io, di alluvioni, mi ricordo bene la prima: quella dell’ottobre del 1970. Avevo da poco compiuto sette anni. Il mio appartamento dava su due lati diversi dell’isolato. La parte più lunga di casa mia era rivolta su un grande piazzale industriale e quindi l’acqua, nonostante tutto, riusciva a defluire. Ma c’era un vano del nostro appartamento che dava su un cortile interno. Il perimetro di quel cortile era segnato da un muro piuttosto alto che lo circondava su tutti lati, fatta eccezione che per un cancello: da lì l’acqua entrava, non trovava più via di fuga, e continuava a salire. Abitando al primo piano, ricordo di aver seguito  a lungo dalla finestra di casa mia, e con una certa  apprensione, quell’inquietante minaccia, fino a quando, due giorni dopo, la situazione ritornò alla normalità .

Comunque, per tornare al provino del Genoa, fui anche preso. Ma, per quanto possa sembrare strano, in famiglia rifiutammo l’offerta. Mio padre non poteva accompagnarmi agli allenamenti, mia madre nemmeno. Ed io stesso non ero molto convinto: paure infantili, svogliatezza, indisciplina.

In effetti, sono sempre stato un po’ “refrattario” agli allenamenti, e pur avendo praticato il calcio amatoriale per tutta la vita, soltanto in due occasioni ho partecipato regolarmente a tornei di livello agonistico.

In un caso, si trattava di un torneo al tempo delle superiori. Ero iscritto all’istituto tecnico per il Turismo, Edoardo Firpo, una scuola frequentata per circa il 90% dal gentil sesso. Caratteristica più che apprezzabile per altri aspetti, ma difficoltà quasi insormontabile per un gruppo di ragazzi che voleva formare la squadra dell’istituto.

Alla fine, riuscimmo a malapena a mettere insieme 11 giocatori, non avevamo neanche le riserve (e forse fu anche un bene, perché non dovemmo mai litigare su chi mandare in panchina). Comunque, nonostante il nostro numero esiguo, il prof di ginnastica decise ugualmente d’iscriverci al torneo studentesco della città.

Dovevamo competere con istituti tecnici come l’Odero, il Gastaldi, il Giorgi ed il Nautico. Erano i primi anni Ottanta e le scuole superiori erano frequentate dai ragazzini nati negli anni Sessanta, gli anni del boom demografico. Tutti quegli istituti professionali avevano scolaresche di 1500, anche 2000 studenti. Ciò voleva dire che, per ogni ruolo, le squadre di quelle scuole potevano in media fare una selezione tra una ventina di studenti. Noi invece, come dicevo, avevamo fatto fatica a mettere insieme un minimo di 11 giocatori.

Fatte le debite proporzioni, era un po’ come se la Repubblica di San Marino avesse dovuto partecipare ad un torneo che comprendeva Brasile, Germania, Italia e compagnia bella. Ciò nonostante facemmo davvero bene.

Eravamo un gruppo molto affiatato: tutti genoani, tranne una “pecora nera”, Roberto di Prà, tifoso della Sampdoria, che però era un ottimo centrocampista, e quindi ottenne uno speciale “lasciapassare” dal resto del nostro gruppo. Alla domenica andavamo a vedere le partite del Grifo, durante la settimana ci allenavamo ed il sabato battevamo i nostri avversari a Bavari e a San Desiderio, nei campi delle alture a levante della città. Insomma, infilammo una lunga ed incredibile serie di vittorie e, partita dopo partita, arrivammo ad un passo dalla finale. Purtroppo perdemmo due a uno  nella semifinale contro il Nautico, dopo essere passati in vantaggio e dopo che, sull’uno a zero, il nostro uomo migliore sbagliò  clamorosamente il rigore che avrebbe potuto mettere la parola “fine” all’incontro.

La finale del torneo studentesco si sarebbe dovuta tenere in quello che dal gennaio del 1911 è lo stadio del Genoa, il Luigi Ferraris, ed io ricordo che, nei pochi secondi che avevano preceduto l’esecuzione del rigore, avevo sognato ad occhi aperti: mi vedevo già a Marassi fare un gol in zona Cesarini e correre gioioso sotto la Nord (poco importava che la Nord, in quell’occasione, sarebbe stata deserta o semideserta, avrei pagato per vivere quell’emozione). Per la cronaca: la finale fu Giorgi-Nautico e furono i primi, gli studenti dell’istituto tecnico-industriale ad imporsi sui futuri “marittimi”.

L’altro torneo al quale partecipai regolarmente risaliva a qualche anno prima. Nel 1975, subito dopo aver rinunciato all’offerta del Genoa, mio padre (forse per “smaltire” il senso di colpa) si mise d’accordo con un suo amico allenatore della Rivarolese. La situazione, da un punto di vista pratico, era molto più semplice: il campo da gioco era abbastanza vicino a casa nostra e siccome conoscevo già molti ragazzini che giocavano in quella squadra, anche l’ambiente mi era più familiare.

Tutto incominciò un pomeriggio a casa mia. Ero tornato a casa da poco, dopo aver passato, come mio solito, la mattina a scuola. Avevo appena finito di mangiare quando mio padre mi disse : “Fra un po’ usciamo. Andiamo a comprare un  nuovo paio di scarpe da football. Domani hai un provino da fare”. Non mi aveva neanche chiesto se ero d’accordo e, francamente, non ce n’era davvero bisogno, perché mi brillavano gli occhi dalla felicità.

Ci dirigemmo verso la periferia nord della città, in  Valpolcevera. La ditta  “Ferrari” di Bolzaneto sembrava (e probabilmente era) un’impresa a conduzione familiare, ma a quei tempi era una ditta di fama nazionale che riforniva le squadre professionistiche di mezza Italia. Ricordo che mi cadde l’occhio su un paio di pacchi in spedizione: i destinatari degli ordini erano le squadre della Lazio e del Cagliari.

Eravamo a metà degli anni Settanta, non erano ancora i tempi delle Nike, della Puma e delle Adidas, o meglio: tutte quelle scarpe c’erano già, e si mettevano per andare a passeggio, ma non ricordo di averle mai usate per giocare a pallone (perlomeno non nelle partite di livello agonistico). In quegli ultimi anni, se non mi sbaglio 1970 e 1973,  il Cagliari di Manlio Scopigno e la Lazio di Tommaso Maestrelli avevano vinto lo scudetto. E da quell’angolo di Bolzaneto partivano scatole di scarpe destinate ad essere calzate da Gigi Riva e da Enrico Albertosi,  da Giorgio Chinaglia e da Vincenzo D’Amico.

Comunque comprammo le scarpe, feci il provino ed incominciai a giocare nella squadra giovanile della Rivarolese. Allora la prima squadra giocava in serie D e al campo c’era sempre tanta gente. I vecchi si ricordavano ancora di quando, nel primo dopoguerra, la squadra di casa, che allora giocava nel campionato nazionale, aveva battuto due a zero la Juventus davanti a 5.000 concittadini. I ragazzi, invece, approfittavano della vicinanza di un deposito di prodotti petroliferi per ” prendere in prestito” dei bidoni vuoti, così il “Torbella” di Rivarolo era probabilmente l’unico stadio d’Italia in cui i tifosi, al posto dei tamburi, usavano i  barili per sostenere  la propria squadra.

L’amico di mio padre, allenatore dei ragazzini, si chiamava Luigi Caburri, ed era stato un portiere professionista. Aveva giocato nel Savona in serie B in un campionato del 1940 (probabilmente, aveva giocato anche in altre squadre a livello professionistico, ma quello del 1940 a Savona è l’unico particolare di cui mi aveva parlato e di cui io mi ricordi). Tra l’altro, quella del 1940 fu in assoluto la migliore stagione della squadra ponentina: quell’anno il Savona arrivò quarto in serie B; neanche con Valerio Bacigalupo tra i pali (che in seguito sarebbe divenuto il portiere del Grande Torino) il Savona riuscì a fare di meglio.

Mio padre invece era stata una buona ma semplice ala a livello dilettantistico, che aveva oscillato tra la prima e la seconda categoria. Ogni tanto li sentivo scherzare tra loro. Caburri esordiva con: “Attaccante te?!?  Al massimo puoi attaccare la carta da parati”. E mio padre gli rispondeva in genovese “E ti t’êi ûn portê da palassi”. (E tu sei un portiere da palazzi). Quella battuta doveva avere punto nell’orgoglio il vecchio portiere professionista, perché un giorno, poco prima dell’allenamento, si presentò  con  un foglio in mano e chiamò mio padre: “Ehi Walter, vieni un po’ qui”. Ci avvicinammo e lui, senza dire una sola parola, ci mostrò la fotocopia di un articolo di giornale che parlava di una partita. Non saprei dire se si trattasse  di un’amichevole, di una partita di coppa o di campionato. Ricordo solo che sotto alla foto c’era scritto: “Caburri Para un Rigore a Silvio Piola”.  E da quel giorno,  mio  padre  smise  di  chiamare  il mio allenatore  “portê da palassi”.

È sempre stato così: gli incontri e le storie  dei giocatori di un periodo mitico sono sempre rimasti impressi nella mia memoria. Se mi chiedeste cosa ho mangiato lunedì scorso, potrei anche non ricordare. Ma una storia di calcio dei tempi d’oro, anche di trenta o quarant’anni fa, non la dimentico più, per tutto il resto della mia vita.

Qualche anno dopo, quando lavoravo come camionista per una ditta che aveva sede nell’ex-stabilimento dello zuccherificio Eridania di Sampieradrena, mi capitò di conoscere un altro giocatore dal passato ancor più glorioso. Si chiamava Emilio Caprile, ed aveva giocato nel Genoa a 17 anni in serie A (nel campionato  45-46),  l’anno dopo era passato alla Sestrese in serie B, per poi tornare ancora in  serie A  nella Juventus, squadra con la quale, nel 1952, aveva anche vinto uno scudetto.

La ditta di cui era titolare e l’impresa di trasporto giornali per cui lavoravo stavano per fondersi in un’unica società. Erano i primi anni Novanta. Il mondo iniziava già ad andare troppo veloce ed i giornali facevano davvero fatica a stargli dietro. Durante il periodo della prima guerra del Golfo, ero spesso allo stabilimento del Secolo XIX che si trovava a Multedo. Ad essere precisi, la guerra del Golfo non era ancora cominciata, ma se ne prevedeva l’inizio da un momento all’altro. Un giorno… anzi una notte, verso le 23.45, dalle rotative dello stabilimento  uscì la prima edizione del quotidiano, quella destinata agli abbonati e all’edicole che sono aperte di notte. Il titolo era qualcosa del tipo: “Tutto Tace a Bagdad”.

Poco più o poco meno di un’oretta dopo arrivò una pattuglia (capitava spesso che durante il turno di notte passassero vigili, poliziotti o carabinieri a prendere una copia in omaggio). Dall’auto scese un ufficiale dell’Arma che evidentemente aveva voglia di fare due chiacchiere. Il carabiniere si avvicinò al mio camion e mi disse: “Hai sentito? È incominciato il bombardamento dell’Arabia Esaurita”. Sorrisi pensando che volesse fare dell’ironia. Quando, dalla sua espressione seria, capii che non stava per nulla scherzando, non seppi che dire.

Quella notte ci fu uno dei più grandi bombardamenti di tutti i tempi (in Irak, e non in Arabia Saudita). E quella fu anche la notte in cui gli addetti del “porta a porta” del Secolo XIX andarono a ritirare casa per casa, portone dopo portone, la prima edizione del quotidiano genovese (quella dal titolo “Tutto Tace a Bagdad”) per sostituirla con una più rispondente ai fatti reali.

Il pomeriggio successivo ero invece di turno nel trasporto delle bobine di carta. Per me era un lavoro nuovo, per cui mi misero di coppia con l’autista più esperto dell’altra ditta. Ma l’autista più esperto non si rivelò tale, o forse  era talmente esperto da  essersi lasciato  prendere da un eccesso di fiducia in se stesso. Eravamo dalle parti di Quarto, proprio vicino allo scoglio dei Mille, da dove partirono i garibaldini. Per fare la consegna, bisognava andare col camion in retromarcia lungo una discesa ripida e stretta che portava all’entrata della tipografia. Il mio collega iniziò la manovra troppo rapidamente. Poi, quando si accorse che stava andando a raschiare lateralmente sul muro, tirò una brusca inchiodata. A quel punto, il carico cominciò ad ondeggiare rumorosamente. Le bobine all’interno si liberarono dei tacchi e delle cinghie che le tenevano strette, sfondarono il portellone del camion ed iniziarono a rotolare giù per la discesa, dirigendosi verso l’entrata del magazzino.

Inutile dire che non ci fu bisogno di bussare alla porta per farsi aprire: le bobine, nella loro folle corsa,  disintegrarono il cancello e travolsero tutto, andando a schiantarsi nella parete in fondo al deposito. Il caso volle che nessuna persona si fosse trovata sulla loro traiettoria (avrebbe veramente fatto la fine di Willy il coyote).

Insomma, fortunatamente non ci furono gravi conseguenze e la cosa alla fine non mi turbò più di tanto. Prima di tutto perché nessuno si fece male. In secondo luogo  perché non era stata colpa  mia. Ed infine perché a quei tempi avevo già deciso di dimettermi e cercare un nuovo lavoro che mi permettesse di riprendere gli studi universitari.

Stavo per cominciare un percorso di molti anni che mi avrebbe portato a laurearmi e a cominciare una nuova carriera professionale all’estero. Ma in quelle ultime settimane di lavoro, nei limiti del possibile (a colazione o durante una pausa al bar, alla fine o prima dell’inizio di un turno), approfittai spesso delle conversazioni con Emilio Caprile per farmi raccontare  qualche aneddoto che riguardava il Genoa degli anni Quaranta, e la Juve degli anni Cinquanta (ma anche della Sestrese in serie B).

Forse mi sono un pò allontanato dal filo rossoblù che dovrebbe legare questi racconti. Ma ci tenevo veramente ad evidenziare come nella Genova della mia adolescenza e della mia gioventù, potevi andare in un laboratorio artigianale di Bolzaneto, giocare una partita in un campo di Rivarolo o fare una consegna per una ditta di Sampieradarena ed “entrare magicamente” nella storia  gloriosa del calcio italiano. Entrare, cioè, in contatto con qualcuno che preparava le scarpe di Gigi Riva, qualcuno che aveva parato un rigore a Silvio Piola o qualcuno che era stato compagno di squadra di Boniperti. E tutte queste persone, con le loro attività professionali,  erano la testimonianza vivente di un calcio di altri tempi, che dava da vivere più che dignitosamente, ma che non era così assurdamente ricco, o meglio: così spudoratamente miliardario.

Massimo Prati

Massimo Prati (Foto Rsi tv)
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