I racconti del Grifo: gli highlanders rossoblù

Massimo Prati racconta l'insurrezione popolare del 30 giugno 1960 a Genova, intrecciata con la storia del Genoa

Genova la rivolta del 30 giugno 1960 (Tratta dal libro "I Racconti del Grifo")

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Nella ricorrenza del 30 giugno 1960, propongo un racconto che, nella sua interezza, a partire da quel giorno di lotta si muove tra storia di Genova e storia del Genoa.

“La città vecchia, i vicoli del centro storico. Da quei caruggi uscivano i giovani con le magliette a strisce che, nel giugno del 1960, fecero cadere il governo Tambroni. Tra quei ribelli, portuali allora poco più che ventenni, c’erano anche mio padre e mio zio. Mio zio paterno non l’ho mai conosciuto: morì a 25 anni a causa di un incidente sul lavoro, qualche mese prima della mia nascita, e la sua foto con il suo bel viso da marinaio è esposta per sempre nella Sala della Chiamata del Porto, a fianco a quelle dei suoi sfortunati colleghi, che come lui hanno lasciato la vita su una calata o dentro una stiva.

Ma c’è un altra foto di quel mio zio che ricordo con emozione. Il 24 giugno del 1990 il quotidiano “Il Lavoro” lanciò un’inchiesta legata a Genova: pubblicò le foto del giugno ’60 e chiese ai genovesi di raccontare e di raccontarsi. Il giorno dopo c’era un intero articolo che parlava di mio zio Rinaldo: un suo vecchio amico d’infanzia e collega l’aveva riconosciuto e ne ricostruiva il profilo: ragazzo divertente e simpatico ma combattivo, cresciuto nel popolare quartiere della “Marina”, nei vicoli di Via Madre di Dio, socio della Compagnia Unica dei portuali, nella sezione San Giorgio, morto qualche anno dopo sui moli di Sampierdarena.

Ma io quella storia la conoscevo a memoria, ciò che mi colpì fu invece la foto che accompagnava il servizio: c’erano centinaia di manifestanti in via XX Settembre, l’arteria principale della città, in una giornata di grande tensione, e tutti, ma proprio tutti, guardavano davanti a sé. Mio zio era stato il solo ad accorgersi che qualcuno stava scattando una foto, ed aveva rivolto un sorriso all’obiettivo. Per quanto ne poteva sapere, il fotografo avrebbe potuto anche essere un agente della questura.

Ricordo infatti che mio padre mi raccontava come, nei giorni successivi a quella che fu una vera e propria insurrezione di popolo, la polizia -foto alla mano – girasse per i moli del porto di Genova per identificare i portuali che avevano partecipato alla protesta. Ma, sul momento, mio zio non aveva pensato alle possibili conseguenze di rimanere immortalato in una foto; e nel volto sorridente di quella istantanea erano racchiuse la semplicità e l’ingenuità di quel mio caro parente, caratteristiche che mi fanno rimpiangere ancora di più il fatto di non averlo mai conosciuto.

E, anche a causa di questi profondi legami di sangue, il centro storico della nostra città per me non sarà mai semplicemente un luogo fisico ma sarà, prima di tutto, un luogo elettivo della mente e del cuore, dove si annidano numerosi ricordi, alcuni dolenti, altri assai divertenti. È uno dei luoghi della mia infanzia, periodo della mia vita in cui andavo a trovare mia nonna paterna, che abitava in Via del Molo, a pochi passi da Porta Siberia, nel quartiere vicino all’attuale Acquario di Genova: l’area ridisegnata da Renzo Piano (ma, ovviamente, negli anni Sessanta l’Acquario non esisteva e tutto era completamente diverso). Ed infine, il centro storico della nostra città è anche un posto dove vado ancora più volentieri di questi tempi, ogni volta che mi è possibile, visto che vivo all’estero da molti anni.

Molto è stato scritto e detto sui colori, gli ambienti, gli odori, i sapori e la gente dei vicoli. Canzoni, racconti, film e poesie: da “Via del Campo” di Fabrizio De Andrè a “Genova” di Dino Campana; da “Le Mura di Malapaga” di René Clément ed interpretato da Jean Gabin, a “Il Giorno dello Sciacallo”, di Fred Zinnemann (una trentina di anni prima che il celebre attore hollywoodiano Bruce Willis ne interpretasse il remake: “The Jackal”). Ma non solo uomini, donne e bambini, nel centro storico della nostra città ti parlano anche le pietre, se solo sai ascoltarle ed interpretarne il linguaggio.

Così, nei pressi del bivio tra San Luca e San Siro, all’altezza di un negozio d’abbigliamento, si può notare un bassorilievo, incastrato in un muro, raffigurante un uomo attaccato da un drago. In quella zona, l’urbanizzazione ne ha cancellato ogni segno ma, circa milleseicento anni fa, c’era un pozzo, o forse un rivo (corrispondente all’attuale via Lomellini), che la gente del posto credeva abitato da un basilisco (un essere mitologico, dalle sembianze di drago o di serpente, al quale si attribuivano poteri malefici). Ma San Siro riuscì a scacciare l’orribile bestia ed è per questo che la superstizione dei nostri antenati ha lasciato traccia di sé in un’opera in marmo, su una colonna d’ardesia di una vetrina, che separa i tailleur da gonne e maglioni.

Come si è soliti dire, “la storia la scrivono i vincitori”. Ma la storia può anche essere questione di punti di vista. E, quella di Genova, storia di una gloriosa dominatrice dei mari, sotto altri aspetti avrebbe potuto benissimo anche essere catalogata come una storia corsara, visto che i genovesi, nelle loro frequenti incursioni marine, avevano l’abitudine di depredare ciò che trovavano. È anche per questo che si può passare a Caricamento, presso il lato di Palazzo San Giorgio che dà verso i portici di Sottoripa e vedere le effigi del tredicesimo secolo appartenute in precedenza ad un palazzo nobile di Costantinopoli. Tra l’altro Palazzo San Giorgio, passato alla storia come une delle prime banche nella storia dell’uomo, era usato anche come prigione: lì dentro Marco Polo, catturato durante una battaglia navale, scrisse, anzi dettò “Il Milione” a Rustichello, un prigioniero pisano che con lui divideva la cella. E sul muro di quel palazzo c’è appunto una targa. Targa che giustamente ricorda ai posteri il luogo della creazione di un’opera artistica, fondamentale nella storia della letteratura di viaggio.

E le pietre parlano anche in molti altri luoghi della città antica: passando nel quartiere del Molo, per esempio, e poi ancora tra via di Canneto il Lungo, via San Bernardo ed in via dei Giustiniani si possono trovare, a diversi metri d’altezza, i leoni di San Marco inseriti nelle facciate di chiese e palazzi. Uno si trova addirittura a fianco ad un balcone di un antico palazzo. E passerebbe quasi sicuramente inosservato, a meno che non si cammini col naso all’insù o si sia a conoscenza della sua esistenza. Quei leoni sono i trofei di guerra di due battaglie navali vinte contro l’eterna nemica: Venezia. Le lapidi furono asportate da qualche chiesa o palazzo di una città istriana e portate a Genova in segno di vittoria.

Ma i genovesi si era specializzati anche nel trasporto di qualcosa di più complicato: alcune parti della Chiesa di San Donato sono formate da colonne appartenute ad un tempio romano, di non so dove (forse di Luni, città romana che si trova al confine tra Liguria e Toscana). Un giorno i marinai genovesi arrivarono, smontarono il tempio e se lo portarono a casa.

Parlando di Genova e dei vicoli della città, mi viene quasi da dire che le pietre del centro storico sono un po’ come delle conchiglie: se avvicini l’orecchio, sentirai l’eco di onde che arrivano da lontano: dalla Corsica, da Carloforte, da Biserta, dal Bosforo, da Gibilterra, dove ancor oggi c’è una “Genoa House”, dalle Canarie, dal Mar Nero o dal Medio Oriente. E anche per questo che una delle raffigurazioni più antiche di Cristo, “Il Sacro Mandillo” si trova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni ma, in questo caso, la cosa riguarda un sito fuori dai vicoli, e po’ più in collina. E, detto en passant, quello che è passato alla storia come il “Figlio di Dio” non ha i capelli biondi e gli occhi azzurri come ci hanno spesso mostrato nei quadri in parrocchia ma, com’è logico che sia, ha i tratti tipici mediorientali.

Ho detto che le pietre del centro storico “ti parlano”. A volte ti parlano in senso figurato, come i volti in marmo dal naso mozzato, nel portale di Palazzo Lercari in Strada Nuova, che ricordano una crudele rappresaglia, ordita da un antico membro di quella famiglia, Megollo Lercari, contro una popolazione nemica.

Ma altre volte le pietre ti parlano nel vero senso della parola. La scritta in latino di Porta Soprana, costruita ai tempi del Barbarossa, si rivolge direttamente al presunto invasore: “Sono sorvegliata da soldati, circondata da splendide mura e scaccio lontano con il mio valore i dardi nemici. Se pace tu porti, accostati pure a queste porte. Se guerra tu cerchi, triste e battuto ti ritirerai. Il Meridione ed il Ponente, il Settentrione e l’Oriente sanno su quale fremiti di guerre io Genova abbia prevalso”.

Comunque, sia quel che sia, ogni volta che posso me ne vado nei vicoli, mi infilo in in una loggia, in una chiesa o in un palazzo del centro storico e lascio che le cose mi raccontino le loro storie. Ma altre volte, ovviamente, vado nella città vecchia semplicemente per incontrare qualche vecchio compagno di scuola e bere qualcosa.

Un giorno, una quindicina di anni fa, ero in un bar dei caruggi con Robertone, un amico genoano grosso come un armadio che, nonostante sia più prossimo ai cinquanta che ai quarant’anni, è rimasto rissoso ed irascibile come ai tempi di scuola. È uno, come dice lui, a cui ‘piacciono di più i calci che i baci e che si suona volentieri ad est, ad ovest, a settentrione, a mezzogiorno e anche dopo mezzogiorno, sedicente inventore del manrovescio’. Eravamo oramai in serie C, a pochi giorni dal primo match contro il Pizzighettone ed io ero appena arrivato da Ginevra: stavamo preparando la nostra trasferta. In realtà la nostra prima partita di campionato in serie C avremmo dovuto giocarla a Marassi, ma siccome avevano squalificato il campo del Grifo, a causa di un lancio di razzi durante una precedente partita di Coppa Italia, stavamo mettendoci d’accordo per andare a Torino, che era lo stadio designato per giocare l’incontro in campo neutro.

Ci avviciniamo al bancone, cominciamo a fare due chiacchiere con il barista, e con piacere scopriamo che è genoano anche lui. Poi ordiniamo due boccali di medie chiare. Dopo un po’ entra un doriano, evidentemente cliente abituale, perché incomincia a scherzare di calcio col titolare del bar mostrando una certa confidenza: “Adesso che siete in serie C, vedrai che scomparirete, anzi siete già in via di estinzione”. Io avevo Roberto di fronte a me e vidi il suo volto passare dalla spensieratezza di pochi secondi prima ad una smorfia d’irritazione. Ricordo che tra di me pensai: “Ahi! Adesso scoppia la lite”. Roberto si gira si rivolge al nuovo venuto e gli dice: “A belina, guarda che noi siamo come gli highlanders: siamo eterni. Anzi, gli highlanders, al nostro confronto, sono dei principianti: ci fanno le seghe!”. Fortunatamente la cosa non andò oltre. Insieme al barista, cercai di calmare le acque. E poco dopo, io ed il mio amico Roberto finimmo le birre, pagammo il conto e ce ne andammo senza che ci fossero altri problemi. E qualche giorno dopo, eravamo sugli spalti dell’Olimpico di Torino a vederci un noiosissimo Genoa-Pizzighettone, insieme a migliaia di altri grifoni.

Però quel parallelo, fatto in un bar dei caruggi, tra i genoani e gli highlanders, da quel giorno non mi ha più abbandonato. In effetti, il Genoa e i genoani, con la loro tendenza a trascendere il presente e la realtà contingente, potrebbero essere il soggetto di un’interessante ricerca sociologica o antropologica. A me, appassionato di lingue e linguistica, colpisce anche la terminologia che i grifoni utilizzano parlando di loro stessi, rivelatrice di una visione del mondo che va appunto aldilà della vita del singolo uomo. I genoani non sono semplici tifosi ma, come ebbe a dire il Professor Franco Scoglio da Lipari, sono “il Popolo Rossoblù”. Il Luigi Ferraris non è lo stadio ma il “Tempio”. E come nella migliore tradizione di racconti popolari, oggetto di studio della moderna narratologia, la storia del Genoa e dei Genoani ha i suoi nemici (al diavolo il “politically correct”, tanto di moda al giorno d’oggi: esistono anche i nemici, non solo i semplici avversari). Ed i nemici del Grifo sono chiamati “ciclisti”, “ravatti”, “multicolors”, ecc. Ma la narrazione non si ferma lì, e così abbiamo la nostra “terra promessa” (cioè “La Stella”), così come abbiamo un sortilegio contro cui lottare (una leggenda narra che nel 1911 un’ortolana lanciò una maledizione contro il Genoa; maledizione che sarebbe dovuta durare cent’anni).

Nel paradiso vichingo, che si chiamava Walhalla, i nuovi arrivati banchettavano a base di bistecche, cinghiale e grossi boccali di birra. I tifosi del Grifo non hanno il Walhalla ma hanno “Il Terzo Anello”, un paradiso circolare che si espande sopra allo stadio e accoglie le anime dei rossoblù; perché anche se passati a miglior vita, i genoani continuano a vegliare sopra Marassi (e magari le bistecche di cinghiale no, ma mi sa che una birretta, guardando dall’alto le nostre partite, ogni tanto se la fanno anche loro).

Inoltre, esiste anche l’Agorà rossoblù, perché il Genoa è una democrazia assembleare di piazza, e se passate da De Ferrari, tra i portici dell’Accademia di Belle Arti ed il pronao del Teatro dell’Opera Carlo Felice, vedrete delle riunioni spontanee ed improvvisate che possono protrarsi per ore. È un rito che si ripete dalla fine dell’Ottocento: sono i tifosi della “Rametta”, che disquisiscono rigorosamente e animatamente in dialetto di scelte tecniche ed arbitraggi, acquisti e sostituzioni, trasferte e partite in casa e non si esimono neanche dal cercar di mimare le azioni degli episodi salienti di una partita. In realtà, inizialmente, il luogo di appuntamento tradizionale dei tifosi del “Genoa Cricket and Football Club 1893” era un centinaio di metri più a lato, verso Via Roma. In quella strada, all’estremo opposto, si trova anche la Sala Sivori, uno dei cinema più antichi d’Italia, che è il luogo in cui, più o meno negli stessi anni (1892, per l’esattezza) veniva fondato il Partito Socialista Italiano. Ma i portici di De Ferrari, rispetto a Via Roma, offrivano riparo dal sole e dalla pioggia, a seconda delle stagioni, e fu così che la piazza centrale di Genova divenne il luogo di ritrovo abituale per i tifosi del Genoa.

Il Genoa è anche la parola “solidarietà”, quella dell’iniziativa sociale che ha scelto per slogan “Un Cuore Grande Così”, cioè la scritta che appariva su un bandierone alto decine di metri e largo quanto la nostra vecchia gradinata, vale a dire quasi un centinaio di metri. La campagna finanziaria, che nasce da un’idea di Lorenzo, noto ai navigatori di siti genoani come “il mago rossoblù”, è una raccolta di fondi organizzata dai tifosi stessi, unica in Italia, per quanto mi risulta, e forse caso unico anche nel mondo. Una raccolta di fondi iniziata forse anche come volontà di riscossa, ai tempi infausti della retrocessione in serie C.

Qualcuno sperava che il Genoa sarebbe stato finalmente affossato: bisognava reagire e salvare il Grifo da quella minaccia. E da allora, ad ogni inizio stagione, si raccolgono sottoscrizioni destinate all’acquisto di abbonamenti del Genoa per altri tifosi, appartenenenti a fasce sociali economicamente più deboli o ad associazioni di persone disabili, a comunità d’immigrati e ad organizzazioni antirazziste, a centri sociali e socio-educativi oppure a comunità terapeutiche e di recupero. Nel 2009, per esempio, furono raccolti 65.000 euro, alla faccia della presunta avarizia di noi genovesi. Magari, come tutti i luoghi comuni, la tirchieria ligure avrà pure un fondo di verità. Ma quando si tratta di buone cause, i genovesi sanno anche mettere mano al portafoglio.

Ma la tendenza del Genoa e dei genoani ad incarnare questo senso d’appartenenza che va aldilà della vita del singolo, e che porta a sentirsi parte di un collettivo, radicato nella storia con un’impronta indelebile, si può rilevare anche leggendo le storie di vita dei fondatori del club o di alcuni atleti in particolare. Questa raccolta di racconti è essenzialmente una collezione di testimonianze mie personali, dei miei amici, dei miei familiari e dei miei conoscenti. Ma in questo ambito, voglio citare due aneddoti, trovati su internet, che riguardano persone che non ho conosciuto personalmente, anche se fanno ugualmente parte di me. In realtà, di episodi ed aneddoti che vanno in questo senso ce ne sarebbero talmente tanti da riempire un’enciclopedia. I primi che mi vengono in mente sono quelli riguardanti il portiere degli anni Venti, Giovanni De Prà, che volle far sotterrare la sua medaglia olimpica -vinta nel 1928 alle Olimpiadi di Amsterdam- a fianco del palo destro della porta sotto la Nord, la porta che per tanti anni aveva difeso; e poi, più recentemente, il 24 maggio del 2001, la serata dei trentamila in onore di Capitan Signorini e dei suoi splendidi familiari; o, ancora, il caso di Julio Cesar Abbadie, giocatore uruguagio degli anni Cinquanta che tornò a Genova quasi mezzo secolo dopo (nel dicembre del 2004), per un Genoa-Empoli in serie B (vinto per tre a due con un memorabile colpo di tacco di Nicola Zanini) e che fu accolto da decina di migliaia di genoani allo stadio ed in città. Ma, per esigenze di spazio, limitiamoci a questi due articoli trovati nel web.

Edoardo “Dadin” Pasteur fu una delle figure storiche più importanti degli anni immediatamente successivi alla fondazione del Genoa. Prima giocatore, poi dirigente e presidente del Genoa, promotore del progetto che portò nel 1911 alla costruzione dello stadio Luigi Ferraris (che ovviamente a quei tempi non si chiamava ancora così), arbitro, dirigente della Federazione Italiana Gioco Calcio, imprenditore specializzato nella produzione di articoli sportivi, e poi ancora commissario straordinario nel secondo dopoguerra, a sostegno del club rossoblù.

Nel 1965, fu pubblicata una sua testimonianza che ai giorni nostri si può trovare in rete. Per dare un’idea dell’importanza internazionale di questa figura leader nella storia del nostro club, segnalo che questa testimonianza si trova anche sul sito francofono “La Galaxie des Pasteur”:

“Sono l’unico vivente di quel Genoa che nel 1898 vinse il primo campionato italiano di calcio, che durò poche ore, poiché s’iniziò il mattino e terminò il pomeriggio dell’8 maggio. Nacqui a Genova il 29 Maggio 1877 da famiglia svizzera, e sono parente del famoso Pasteur scopritore del siero antirabbico. Entrai a far parte del Genoa Cricket and Football Club nel 1896, all’età di 19 anni, di ritorno dalla Svizzera ove per sette anni avevo compiuto i miei studi e mi ero dedicato allo sport ( tennis, ginnastica, pattinaggio ) oltre che al football. Ho avuto la prima fabbrica di palloni e scarpe per football con stabilimento, uffici e negozi a Genova, nell’immediato dopoguerra 1918. Nel 1897 assunsi la direzione del Genoa, e fui nominato primo segretario e due anni dopo presidente e vi restai per molti anni. Il Genoa prese in affitto il campo di gioco a Ponte Carrega, dal terreno ondulatissimo con porte in legno irregolari e senza rete. La prima partita ufficiale di calcio in italia venne giocata a Genova il 6/1/1897 contro il Football Club Torino e nella squadra genovese ero il solo italiano. Fu in quell’occasione che, finita la partita, s’iniziarono con il Sig. Jourdan, dirigente del Torino, le prime trattative per la costituzione in Italia di una Federazione Italiana Gioco Calcio, che venne costituita nel 1898 con sede a Torino. Io feci parte del Direttorio dall’inizio e fino al 1920”

E adesso, spostiamoci nel tempo di qualche decennio e leggiamo una seconda intervista, questa volta non si tratta di una testimionanza diretta, in prima persona, di un fuoriclasse che ha portato in alto i nostri colori. Ma di suo figlio, del figlio di un campione del Genoa che parla del padre: Juan Carlos Verdeal, intervistato da Fabrizio Calzia, venerdì 26 dicembre 2008 alle ore 16.35. Qui di seguito riporto il resoconto, fatto da Calzia stesso, di quel dialogo.

“Juan Carlos Rosso Verdeal, il figlio che porta lo stesso nome del grande numero 10 rossoblù, è medico cardiologo. La sua voce è pacata e cordiale, forse un po’ stupita per l’interesse ancora vivo nei confronti del padre. Per il popolo genoano suo padre è una leggenda, gli confermiamo. Ma sembra faticare un po’, il figlio, a immaginare come quella persona tranquilla e discreta che lui ha conosciuto possa avere risvegliato, tanti anni or sono, tale straripante entusiasmo” .

‘Mio papà aveva un carattere molto riservato, in particolare negli ultimi anni, dopo la morte di mia mamma, Carmen Rosso’

“Carmen Rosso, la signora Verdeal, era brasiliana, di padre italiano e madre spagnola. Juan Carlos l’aveva conosciuta negli anni Quaranta e quando, a fine carriera, passò da Rio prima di tornare a Buenos Aires, le chiese di sposarlo”.

‘Credo fosse il 1955. Mio papà aveva più di 35 anni ma giocava ancora in Algeria, però quando scoppiò la rivoluzione ritenne saggio fare i bagagli. Prima ancora, in Francia, aveva indossato la maglia del Valenciennes, squadra di serie B che, con il suo apporto, arrivò a giocare la finale di Coppa nel 1951’.

“Verdeal e signora approdano a Buenos Aires ma neppure lì la situazione è tranquilla, per la drammatica caduta di Peròn. Ad ogni buon conto rimangono. Nel 1957 nasce Juan Carlos, e due anni dopo Leandro, oggi affermato musicista”.

‘Mio papà ci raccontò poco o nulla della sua vita da calciatore. Pensava soprattutto alla nostra educazione, alla scuola’.

“Ma non aveva chiuso con il calcio, Verdeal, che a Buenos Aires allenava fior di squadre: nel 1962 sedette sulla panchina dei campioni del Racing (prima di lui occupata dai “genoani” Boyé e Stabile), nel 1966 su quella del Club Atlético Almagro. Senza contare che nel 1963 fu fra i fondatori dell’Associazione Allenatori d’Argentina”.

‘Ricordo appena una sua intervista in tv. Allenava più che altro per passione ma, lo ripeto, cercava di non portare a casa il fùtbol. Con noi figli insisteva soprattutto sullo studio delle lingue. Lui ne parlava quattro (spagnolo, italiano, francese e inglese) e non c’era giorno che non ci desse personalmente lezioni di inglese. Continuò così, fino a quando avevo quindici anni. Papà era questo: rigoroso, con se stesso e con gli altri. Non c’era giorno che non facesse ginnastica in casa, in più era un accanito lettore. E pensi che leggeva sempre in piedi, per non incurvare le spalle. Per non dire di quando, da allenatore, seguiva le partite in tv togliendo l’audio per non farsi influenzare dal cronista: tutti indizi, per noi figli, di una personalità spiccata’.

“Nel racconto di Juan Carlos junior c’è una data significativa per la vita sua e di tutta la famiglia. Nel 1968 i Verdeal si trasferirono a Rio de Janeiro”.

‘A soli 50 anni papà chiuse una volta per tutte con il calcio. Non conoscemmo mai il motivo. In Brasile fece per un po’ l’insegnante di lingue straniere, poi il suo carattere riservato prese il sopravvento. Si ritirò ai suoi esercizi fisici, alle sue letture, alla vita nel suo piccolo nucleo familiare’

“Ci fu un solo strappo alla regola di non occuparsi più di calcio”:

‘Nel 1976 fu invitato a Genova dai suoi tifosi. Quell’invito lo stupì e lo emozionò enormemente. Non avrebbe mai immaginato, dopo tutti quegli anni, tanto entusiasmo e tanto affetto intorno a sé, e il suo cuore faticò a reggere tanta emozione. Al ritorno a casa mi regalò la sua maglia di lana rossoblù con il numero 10. Gli regalarono pure una stupenda cravatta blu, con il Grifone contornato dai nove scudetti. La maglia la conservo ancora tra le mie cose più care. La cravatta no, quella non l’ho più. La porta papà. L’ha voluta lui, per sempre’.

Prima di tutto vorrei ringraziare Fabrizio Calzia, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, per avere messo in rete questa testimonianza. In secondo luogo mi viene da pensare a Verdeal, infastidito dal commento di un solo cronista argentino, e mi domando cosa avrebbe detto delle telecronache italiane dei giorni nostri, in cui per vederti una partita sei costretto a sorbirti cinque commentatori: due durante l’incontro, altri due due durante la pausa, più uno che è lautamente pagato per mettersi vicino alla panchina e dirti quante volte ha starnutito l’allenatore tra un contropiede e l’altro.

E poi che resta da dire? Tutti i tifosi italiani, genoani compresi, vorrebbero vincere trofei, tornei, campionati e quant’altro. Ed anch’io spero un giorno di potere vedere la stella. Ma queste due ultime testimonianze per me valgono quanto 4 Scudetti, 3 Champion’s League, 2 Coppe Uefa ed una Coppa Italia. Leggo le parole di questi due protagonisti della storia del Grifo e sento di far parte di un clan che non conosce confini di spazio e di tempo. Forse è per questo che noi genoani ci sentiamo un po’ come gli highlanders.

Massimo Prati

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