Quel viaggio in nave dei tifosi per Torres-Genoa

Rossoblù contro, destinate entrambe a lasciare la C e a non rivedersi. E per quarant’anni, in effetti, è stato così, anche se a metà del primo decennio del duemila si sono sfiorate. Accomunate dai colori, dalla passione dei loro tifosi, dal non sentirsi, pur con storie diverse, mai troppo fortunate. Destinate, sempre e comunque, a […]


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Rossoblù contro, destinate entrambe a lasciare la C e a non rivedersi. E per quarant’anni, in effetti, è stato così, anche se a metà del primo decennio del duemila si sono sfiorate. Accomunate dai colori, dalla passione dei loro tifosi, dal non sentirsi, pur con storie diverse, mai troppo fortunate. Destinate, sempre e comunque, a soffrire.

Il 16 maggio del ’71, quattro decenni fa, un pomeriggio assolato di inizio estate le vede per la prima volta incrociarsi, Torres e Genoa. Non è una partita che entra nella storia del calcio a Sassari, o forse è la memoria dei tifosi a non volerla far entrare. Ma storica, comunque, lo è ugualmente. Arriva il Genoa, i cui nove scudetti già negli anni settanta sembrano roba del passato. Ma pur sempre una grande, ora caduta in C ma col diktat di tornare subito dove i suoi tifosi pensano le competa. E in serie A, in effetti, ci tornerà presto. I tifosi del grifone quell’anno, forse anche più che in passato, la loro squadra la seguono ovunque. A Sassari, il 16 maggio, in un Acquedotto gremito e curioso del confronto con altri cuori rossoblù, più prestigiosi, più abituati a vedere altro calcio, arrivano in mille. E’ la prima volta in Italia che per un esodo sportivo si affitta un’intera nave. 

Vincono e condannano la Torres alla retrocessione in D, peraltro cancellata già l’anno successivo col ritorno in terza serie. I genovesi li porta in Sardegna la Caralis (si chiama proprio così, sembra un segno del destino, il traghetto Tirrenia che affonda i sogni di salvezza di Sassari), e tra loro c’è anche, giurano gli storici genoani, Fabrizio De Andrè. 

Quell’anno era stato un po’ particolare per lui, vagabondo e inquieto più del solito, e le cronache lo danno al seguito della sua squadra quasi sempre, da Imola a Montevarchi. Forse il declassamento lo esaltava, i campi meno nobili pure, di sicuro la Sardegna, in cui stava per stabilirsi, lo intrigava, e così questa presenza, che in realtà forse è solo leggenda, è plausibile.

Ad attendere lui e gli altri 999 c’erano tifosi delusi, arrabbiati con la società sull’orlo del fallimento (il presidente Benassi si è già dimesso, gli subentra Olla) e quasi rassegnati alla retrocessione ormai imminente. Dopo tredici anni di terza serie, spesso entusiasmante, di scontri con squadroni e di derby col Cagliari, riecco la D. Lo spettro della retrocessione si materializza proprio in questa partita, che al contrario dà al Genoa il via libera opposto. Le strade tra le due rossoblù si separano alla fine di una partita brutta, per nulla spettacolare e anche meno tesa di quanto ci si attendeva, soprattutto dalla Torres tecnicamente inferiore. Ma è un anno così, fatto di pochi gol e sconfitte di misura. Di mediocrità e di gambe molli nei momenti importanti.

Speggiorin, uno che in terza serie non ci fa nulla, all’inizio del secondo tempo manda sotto la traversa la palla della promozione, e poi i suoi accorti compagni conservano senza troppo sudare. Paolo Morosi, capitano di quella e tante altre Torres, inarrivabile con 332 presenze, quel pomeriggio non deve faticare, per ricordarlo: “Ci avevano fatto sapere da Ferrara che in caso di vittoria ci sarebbe stato per noi un bel premio in denaro”. La Spal, avversaria del Genoa nella corsa alla B, le provava tutte: “Non ho paura della squalifica”, ride Morosi, “dopo quarant’anni…”. E comunque la promessa non bastò a svegliare la squadra di Ettore Trevisan: “Non l’abbiamo perso lì, il campionato, spesso gli avversari facevano un tiro, un gol. Un anno storto. E c’era la maledizione di Cesare Planetta, il nostro portiere. Non si capiva perché, ma quell’anno non gliene andava bene una”. E dall’altra parte Turone, Speggiorin, Perotti, e Arturo Sandokan Silvestri in panchina: “Noi invece avevamo Trevisan, che non si è mai ambientato e francamente non ho mai ben capito perché sia stato preso”. Il presidente Benassi, a metà campionato, aveva provato così a dare una scossa. Fuori Mario Genta, dentro questo friulano che non lascerà traccia nella storia della Torres: “Era una brava persona, sin troppo: una volta alcuni giocatori gli fecero uno scherzo e lo lasciarono a piedi, in stazione. Rischiò di perdere la nave”.

Torres-Genoa, con settemila sugli spalti a sperare in un sussulto d’orgoglio, sussulti ne regalò pochi: “All’andata a Marassi giocai bene, un giornale di Genova mi diede otto in pagella, e allora al ritorno Silvestri mi mise addosso il 4 che mi seguiva ovunque. Già segnavamo poco, quell’anno: quella partita non avremmo fatto gol neanche giocando altre due ore”. Derlin, si chiamava quel quattro. Quel giorno si trovarono di fronte, lui e i suoi talentuosi e ben pagati compagni, tanti ragazzi sardi, sei su undici: Planetta, Valeri, Pani, Dettori, Cadeddu, Caneo. E Morosi, che già allora lo era d’adozione, sassarese, e lo è oggi ancor di più, pur con quell’accento pistoiese che non va via. Come i ricordi, belli e brutti. Il 16 maggio ’71, con buona pace della Spal di Del Neri e Malatrasi, le rossoblù salutano la C a braccetto. Due settimane dopo, contro l’Entella, Valeri si fa cacciare per un pugno a un avversario (“gliel’avevo detto, a questo tal Gittone, che con Valeri non c’era da scherzare,e loro continuavano a provocare”), e poi un’invasione inaugura la serie delle squalifiche dell’Acquedotto. Si torna in D, ma per poco. E’ un ritornello che a distanza di quarant’anni, ancora una volta, si spera di risentire. 

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