Il mio Genoa – Come i nostri avi dominavano i mari, noi dominiamo gli stadi

Secondo racconto della nostra iniziativa di Massimo Prati


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In occasione del derby di andata, giocato il 25 novembre del 1990, la Gradinata Nord si presentò con una splendida coreografia. Una caravella navigava su un mare pieno di onde rossoblù, mentre sullo sfondo si vedeva uno striscione che recitava: «Come i nostri avi dominavano i mari, noi dominiano gli stadi». Il dominio dei mari e la potenza storica della città sono due aspetti che continuano a fare parte delle coreografie della tifoseria organizzata. Nel derby giocato il 7 aprile 2018, la gradinata dei tifosi del Genoa ha rievocato con un enorme striscione un motto che riassumeva la potenza della città: «Respublica Superiorem non Recognoscens, così nella Storia, così negli Stadi». La Repubblica di Genova non riconosceva l’esistenza di altre forze che le fossero superiori, e lo stesso vale oggi per i tifosi della squadra che, di quella città, rappresenta la massima espressione calcistica. In entrambe le coreografie, quella del ’90 e quella del 2018, c’è quindi un riferimento alla storia passata (il dominio dei mari nel primo caso, l’antico motto della repubblica nel secondo) e c’è un riferimento alla vita contemporanea (il rappresentare da anni in tutti gli stadi una tifoseria che non riconosce entità superiori).

E allora vediamo di passarli in rivista, seppure sinteticamente, i mari dominati dai genovesi. Cronologicamente e geograficamente, possiamo scegliere di partire dalle Crociate e dal Medio Oriente, in una zona corrispondente agli attuali, Israele, Palestina, Libano Siria, alla parte sudorientale della Turchia e all’isola di Cipro. I luoghi che vengono in mente sono dunque: Antiochia e Giaffa, Gibelletto e Tiro, Cesarea e Acri, Famagosta e Beirut, Sidone e la «Gerusalemme Liberata» di Guglielmo Embriaco, ricordata da Torquato Tasso, nell’omonima opera letteraria, ma anche da maestri della pittura, tra Cinquecento e Seicento, come Lazzaro Tavarone, Bernardo Castello e Giovanni Battista Carlone, nelle loro splendide opere d’arte.

Fatto questo riferimento al Medio Oriente, possiamo risalire verso il Mar Nero, costeggiando la Romania, l’Ucraina, la Crimea e la Russia, e arrivare nel Mar d’Azov, percorrendo una storica «Via della Seta», dove, nel XIII secolo, i genovesi stabilirono varie colonie come Tana, Cherson, Caffa, Cembalo e Soldaia, corrispondenti alle attuali Azov, Sebastopoli, Feodosia, Balaklava e Soudak. Degno di nota, per quanto riguarda la città di Tana, il fatto che – secondo alcuni fonti – questo importante centro del Mare di Azov fosse occupato in coabitazione coi veneziani; mentre di Soudak va ricordata la splendida ubicazione di mura e castello, su una montagna a ridosso del mare, che la rende un sito storico e naturalistico tale a come era secoli fa, e visitabile ai giorni nostri.

Nel viaggio a ritroso, all’altezza di Istanbul, potremmo scorgere la torre Galata, costruita nel 1348 dai genovesi nel quartiere della città turca che porta appunto quel nome mentre, proseguendo nella navigazione, incontremmo le isole greche del Mar Egeo di Chio e Mitilene (Chios e Lesbos). La prima fu sotto il controllo della Maona di Chio, istituzione retta dalla famiglia dei Giustiniani, che per certi aspetti prefigurava il concetto moderno di una joint venture. La seconda va ricondotta alla storia dei Gattilusio, famiglia che – grazie al controllo dell’isola – si specializzò nel commercio di allume, un prodotto fondamentale nella tintura di stoffe e tessuti.

Dalle sponde europee del Mar Egeo possiamo poi passare a quelle dell’Africa mediterranea, e a quelle tunisine in particolare, per arrivare a Tabarka, antico centro di pesca del corallo e possedimento della famiglia dei Lomellini, dove ancora oggi si può ammirare un forte che ci ricorda la presenza di una folta comunità genovese. A Genova, in Piazza dell’Annunziata, c’è una basilica i cui interni sono di una rara bellezza, e dove anche i dettagli di affreschi e colonne sono simbolo di opulenza e ricchezza. Le fortune di quella chiesa sono in gran parte legate al commercio del corallo pescato intorno a quell’isola, a metà strada tra Annaba e Biserta. I Lomellini, infatti, usarono parte dei proventi dei loro traffici per impreziosire gli interni della basilica, appartenente alla loro casata.

Dalle coste tunisine si può poi risalire a nord e raggiungere Carloforte, in Sardegna, e poi Bonifacio in Corsica. Carloforte, nell’isola di San Pietro, non distante da Cagliari, nacque nella prima metà del Settecento dalla necessità, per la comunità genovese, di trovare una nuova terra in cui vivere, dopo essere stata costretta ad abbandonare proprio l’isola in Tunisia, di cui abbiamo appena parlato, e in cui aveva vissuto per per circa due secoli. Un legame, quello dei carlofortini con l’isola nordafricana, che ha lasciato tracce anche nella gastronomia, ed è per questo che nelle cucine dell’isola di San Pietro si prepara il cascà: il cous cous alla tunisina, nella variante carlofortina. Ma il legame non è meno forte con Genova, nell’isola ha infatti sede un Genoa Club.

Nel dirigerci dal sud-ovest della Sardegna a settentrione, verso la Corsica, il pensiero va ad alcuni luoghi e personaggi del sassarese, Valledoria e Castelgenovese, che – come si intuisce dai nomi – sono legati alla storia di Genova, e di cui si trovano attestazioni nella grande letteratura italiana. Penso a Branca Doria, citato da Dante Alighieri, nella Divina Commedia, per la sua « non specchiata » moralità, e per questo motivo inserito dal Sommo Poeta tra i dannati all’Inferno, con l’accusa di tradimento.

Quella tra il nord della Sardegna e Bonifacio, nel sud della Corsica, è una breve distanza di mare ed alcuni abili nuotatori sono capaci di fare a nuoto il tratto che separa queste due splendide isole.

Bonifacio è una delle più antiche colonie liguri in terra straniera. Come nel caso di Soudak in Crimea, ma per caratteristiche di altra natura, la città corsa è un luogo di rara bellezza, con un’alta parete calcarea che scende a picco sul mare, e con un forte sulla sua sommità, che conferisce all’insieme del luogo la fisionomia di fortezza inespugnabile. I legami con Genova risalgono alla fine del dodicesimo secolo eppure, sebbene affievoliti dal tempo, sono ancora piuttosto evidenti. Pochi mesi fa mi è capitato di vedere un servizio che parlava di Bonifacio sul terzo canale della TV francese. Un bonifacino, descrivendo la propria comunità, diceva che sull’isola loro si considerano, e sono considerati, come una « communauté de Génois », una comunità di genovesi e, seppure a fatica, nell’epoca della sparizione di lingue e dialetti locali, a Bonifacio un’associazione lavora per la preservazione del bonifacino, lingua degli abitanti del posto, che ha le caratteristiche del ligure parlato nel ponente della nostra regione.

Dalla Corsica, raggiunta Calvi, «civitas semper fidelis» pieghiamo a nord-est, in un tratto di mare toscano, per fare scalo a Capraia, isola e antico bagno penale, ed ancora più antico possedimento della Repubblica. L’isola entrò infatti nell’orbita ligure sin dal tredicesimo secolo, a seguito della vittoria con cui Genova, nella battaglia della Meloria, sconfisse i rivali pisani.

E poi, dopo questa breve puntata nell’arcipelago della Toscana, possiamo arrivare all’estremo orientale della nostra regione, a Porto Venere, altra antica comunità «Fedelissima», e incantevole borgo di mare, con le case dalle facciate pastello, con la torre, la rocca e la chiesa, dalle tipiche fasce in marmo e in ardesia, sulla punta a tenaglia del Golfo di Spezia. E, guardando questo antico borgo a levante di Genova, è facile avere la sensazione di trovarsi di fronte ad un quadro, creato dall’uomo e dalla natura, che colpisce per la sua rara bellezza.

Tralasciamo il resto della Liguria, per evidenti ragioni di sintesi, e puntiamo all’estremo opposto della regione, a ponente, oltre il confine franco-italiano, in direzione della Provenza e, arrivati in Costa Azzurra, raggiungere Monaco, feudo, fin dal XIII secolo, di una famiglia di Genova, la famiglia Grimaldi. Qui la commistione tra francese, provenzale e genovese ha dato origine a una parlata ligure contaminata con le lingue d’oltralpe, e la cosa è intuibile sin dalle prime strofe dell’inno del Principato:

«Despoei tugiù in sciü d’u nostru paise

Se ride a u ventu, u meme pavayùn

Despoei tugiù a curù russa e gianca

E stà l’emblema d’a nostra libertà

Grandi e piciui l’an sempre respetà»

Viene da dire che siamo proprio di fronte a una curiosa miscela di parole francesi, contaminate forse con l’occitano, e di genovese o di ligure di ponente: «Despoei tugiù», cioè «depuis toujours» (da sempre) ; «meme pavayùn», vale a dire «même pavillon», nel senso lato di «stessa bandiera»; e poi ancora «a curù», cioè «la couleur»: il colore. Per ciò che riguarda il ligure, o il genovese, troviamo espressioni della lingua monegasca come «sciü d’u nostru paise» (nel nostro paese), con la precisazione che nel genovese «standard» la pronuncia sarebbe identica, ma la grafia richiederebbe una O al posto della U : « o nostro paise » ; e poi, sempre a proposito d’affinità tra genovese e monegasco, troviamo ancora : « russa e gianca », cioè rossa e bianca e anche « l’an sempre respetà » : l’hanno sempre rispettata.

Insomma, mettendo insieme francofonia e genovese siamo in grado di tradurre in italiano l’insieme delle parole dell’inno:

«Da sempre nel nostro paese

Sorride al vento la stessa bandiera

Da sempre i colori rosso e bianco

sono l’emblema della nostra libertà

grandi e piccoli l’hanno sempre rispettata ».

È forse vale la pena di notare che il genovese è una della poche lingue italiche ad essere presenti nel testo di un inno straniero. L’unico altro esempio che mi viene in mente è l’italiano che, ovviamente, oltre a essere la lingua dell’inno di Mameli, è anche una delle lingue ufficiali in cui è cantato l’inno nazionale della Confederazione Elvetica.

Proseguendo in territorio francese, verso ponente, restano ancora da citare Saint-Tropez e Aigues Mortes. La prima, famosa ed esclusiva località turistica della Provenza, è un antico borgo di mare colonizzato da una comunità genovese nella seconda metà del Quattrocento. Nel Medio Evo, Saint-Tropez era stata oggetto di scorribande da parte dei saraceni. Incursioni che ne avevano indebolito il tessuto sociale, fino a far divenire quel borgo un luogo quasi completamente abbandonato. Nella seconda metà del XV secolo fu stabilito allora un accordo tra il signore del luogo ed un nobile genovese, a seguito del quale una sessantina di famiglie di Genova si sarebbero stabilite a Saint-Tropez, con lo scopo di far rifiorire la vita del borgo.

I genovesi crearono nuovi bastioni che si aggiunsero a quelli esistenti, con lo scopo di rendere più sicuro il villaggio e far rifiorire i commerci. Ed in effetti, alla fine, le attività di pesca e commercio ripresero slancio. A testimonianza del contributo di quei genovesi, ancora oggi, su una delle torri di Saint-Tropez, la Torre Suffren, c’è una lapide che porta la seguente incisione :

« Ai piedi di questa torre edificata nel 980 da Guglielmo I Conte di Provenza, il 14 febbraio 1470 Jean de Cossa, Barone di Grimaud e Gran Siniscalco di Provenza, e Raffaele di Garezzio, gentiluomo genovese, firmarono l’atto di rinascita di Saint-Tropez ».

Questa vicenda di un borgo di mare francese e del ruolo dei genovesi nella difesa di un tratto di costa, ci porta ad un altro luogo e a un’altra storia, un po’ più a occidente e un po’ più indietro nel tempo.

Nel 1240 il Re di Francia decise di creare un porto a Aigues Mortes, a metà strada tra Marsiglia e i Pirenei. Nelle intenzioni del sovrano, quel porto doveva essere dotato di una serie di torri d’avvistamento e di un castello. A questo scopo, l’esecuzione di quei lavori fu affidata a un Boccanegra : Guglielmo, antenato di quello che è considerato il primo doge di Genova. Fu così, dunque, che Boccanegra divenne console ed amministratore di Aigues Mortes, per conto del monarca francese. E ancora oggi, gran parte dell’imponente opera di architettura e ingeneria militare, realizzata da quel genovese, fa parte del paesaggio urbano di quel territorio francese.

Dal sud della Francia, il nostro viaggio prosegue verso la Spagna, costeggiando la Catalogna e arrivando all’estremo sud della comunità valenciana. Di fronte ad Alicante, troveremo la già citata Nueva Tabarca. Quest’isola rappresenta idealmente il terzo anello della diaspora dei tabarkini, i quali, dopo aver lasciato le coste nordafricane, in parte si stabilirono nel sud della Sardegna e in parte finirono appunto in Spagna. I tabarchini spagnoli appartenevano ad una parte della popolazione genovese, dell’isola tunisina, che fu presa in ostaggio dal Reggente di Tunisi. Dopo anni di trattative economiche, di mediazioni condotte da un religioso e grazie all’intervento decisivo di un re, alla fine i genovesi furono liberati, contro un riscatto, e trasferiti dapprima ad Alicante e poi nell’isola che, a partire dalle loro tristi vicende, prese appunto il nome di Nueva Tabarca. Nel corso dei secoli, le radici liguri degli abitanti di Nueva Tabarca si sono attenuate. Ma i retaggi del passato rimangono ancora intuibili nei cognomi delle famiglie del luogo. E se andaste in quell’isola, incontrando un anziano signore che si presenta come « el señor Parodi », potreste pensare ad un pensionato italiano venuto a svernare nel clima iberico. Ma in realtà quell’uomo è un discendente di una famiglia che vive a Tabarca da quasi tre secoli.

Lasciata Nueva Tabarca, scendendo ancora a sud, arriviamo a Gibilterra, colonia inglese in territorio andaluso, dove a partire dalla metà del Cinquecento si registra una presenza genovese crescente, al punto da – due secoli dopo – divenire maggioranza dell’enclave britannica ; e se a Nueva Tabarca non è raro incontrar dei Señor Parodi, a Gibilterra potrete facilmente trovare dei Mister Canepa.

È a causa del combinarsi di questi fattori storici se a Gibilterra si parla llanito, una lingua che è un misto di inglese, di spagnolo e di genovese. Ed è a causa di tutto questo se la colonia inglese è anche un luogo dove, ancora oggi, c’è un edificio che porte l’insegna della Genoa House. E l’influenza di Genova sulla storia di Gibilterra si intuisce anche dal fatto che sullo Stretto si mangiano ancora la farinata – nota col nome di « calentita » – e le « panisse ». A proposito delle panisse, ai non genovesi va forse detto che, sebbene a prima vista sembrino le classiche patate fritte, in realtà sono un altro tipo di cibo, fatto con la farina di ceci.

Ma arrivati a Gibilterra, il nostro viaggio non è per niente finito. Anche se a questo punto, dopo essere partiti dal Medio Oriente, e aver navigato per il Mare d’Azov, il Mar Nero, l’Egeo, il Maghreb ed il Mediterraneo occidentale, possiamo mettere in evidenza ciò che i grandi storici solitamente non dicono, e cioè che la grande differenza tra veneziani e genovesi, in ultima analisi, è questa : i veneziani andavano a oriente, i genovesi andavano dappertutto. Infatti, per i naviganti di Genova, a partire dal tredicesimo secolo, le Colonne d’Ercole non furono più un problema.

Per questo motivo, passato lo Stretto di Gibilterra e dirigendosi a sud, si può fare sosta nelle Canarie, nella Playa de Papagayo. E lì, in quella spiaggia incantevole di Lanzarote, ricordare la figura del marinaio che la scoprì e da cui l’isola ha preso il nome, il navigatore ed esploratore cioè che risponde al nome di Lanzarotto Malocello, varazzino in missione per conto di Genova, sulla scia dei fratelli Vivaldi.

Avendo oltrepassato lo stretto di Gibilterra, potremmo considerare conclusa la discussione sull’espansione ligure nelle coste mediterranee ed aprire il capitolo di quella in acque oceaniche.

Quello di Cristoforo Colombo, come si sa, non fu un caso isolato. I rapporti dei genovesi col Nuovo Mondo sono attestati sin dalle prime spedizioni della flotta spagnola. Ma questo, del resto, non dovrebbe stupire. La Castiglia infatti, per evidenti ragioni geografiche, essendo priva di sbocchi sul mare, mancava di tradizione marittima e, nel periodo della scoperta del Nuovo Mondo, necessitava di gente esperta nella navigazione dei mari.

Il Cinquecento vede quindi i marinai genovesi presenti a Panama, in Messico, all’Hispaniola e in Perù : tra le persone citate in una « carta de queja », del 1566, una lettera di rivendicazioni e reclami, scritta dal Conquistador Lope de Aguirre, e indirizzata al sovrano spagnolo, troviamo un ufficiale che è presentato come « Juan Gerònimo de Espinola, genovés ». Probabilmente si tratta della forma « ispanizzata » del nome in origine rispondente a Giovanni Geronimo Spinola. Se così fosse, staremmo quindi parlando di un esponente di una celebre famiglia della nobiltà genovese. Mentre il Seicento sarà il periodo in cui, il famoso scrittore spagnolo, Francisco Quevedo, dirà che l’oro della Conquista « Nace en las Indias honrado. Viene a morir a España, Y es en Génova enterrado » : l’oro onorato nelle Indie, dall’America passava per la Spagna, e finiva per essere custodito per sempre a Genova. Con quell’oro, nella capitale della Liguria si costruì la Strada Nuova, sede dei palazzi delle più potenti famiglie di Genova.

Ma, naturalmente, se si pensa alla presenza genovese in America Latina, più che i Conquistadores – il Cinquecento, o il Seicento – vengono in mente le ondate di emigrazioni verso il Rio della Plata, nell’Ottocento e nel Novecento.

I legami della Boca con Genova sono risaputi, così come è un fatto storico noto la tournée del Genoa nel ’23 in America Latina e, parlando di tournée genovesi in Argentina, impossibile non pensare anche a quella teatrale, di qualche anno dopo, del famoso attore comico Gilberto Govi. Ma, a prescindere da questi due eventi d’importanza storica indiscutibile, almeno per chi ama Genova, in questo ambito vorrei fare anche qualche divagazione linguistica.

Numerose testimonianze dell’epoca attestano che la presenza dei liguri a Buenos Aires fosse talmente forte da costringere anche gli altri emigrati italiani ad imparare il genovese. Il genovese era dunque una specie di lingua franca, dell’emigrazione italiana, in questa parte del continente. In occasione del centenario del Genoa, nel 1993, ricordo di avere visto una mostra a Palazzo San Giorgio che proponeva una rassegna di giornali argentini editi in genovese.

Ma il legame tra il genovese e la Boca è riuscito a percorrere i secoli, e a varcare il nuovo millennio, per giungere nell’era di internet. A riprova di questo, basta dare un’occhiata al sito ufficiale del Boca Juniors, dove all’opzione in spagnolo, e a quella in inglese, per la navigazione delle pagine web si può anche scegliere la lingua della nostra città. Ed è per questo, per esempio, che a proposito della maglia del Boca, nel sito della squadra argentina si può leggere che :

« O mariolo do Boca o l’è ciù che ‘n sempliçe abito sportivo. O l’è o o tezöo d’ogni tifozo ch’o ghe demanda a-i zugoei de sualo fin a in fondo. O l’è o mantello sacro lödòu da çentenae de cansoin. O simbolo ch’o l’unisce i xeneizes spantegae in gio a-o mundo ».

Traduzione per i non genovesi : « La maglia del Boca è qualcosa di più di un semplice abito sportivo. È il tesoro di ogni tifoso e pretende che i giocatori l’impregnino di sudore. È il mantello sacro lodato in centinaia di canzoni. Il simbolo che unisce i genovesi della Boca sparpagliati in giro per il mondo ».

Il genovese, quindi, non solo è forse l’unica lingua di una città italiana ad essere presente, come abbiamo già visto, nell’inno nazionale di un altro stato (il Principato di Monaco) ma probabilmente è anche l’unica lingua di una città italiana ad essere utilizzata nel sito ufficiale di una squadra straniera.

Comunque, l’influenza della presenza ligure nella capitale argentina ha riguardato anche altre parlate dell’area di Buenos Aires. Mi riferisco in particolare al cocoliche e al lunfardo.

Il cocoliche era un misto di spagnolo e italiano parlato dagli emigrati. Il nome di questa lingua deriverebbe da un personaggio di fantasia che si rifaceva ad una persona reale : un operaio chiamato Coccoliccio, tipico emigrato meridionale che aveva poca padronanza del castigliano. Il legame di questa vicenda con Genova dipende dal fatto che il personaggio di fantasia sarebbe stato rappresentato per la prima volta da un attore comico in un circo gestito da due genovesi. Si trattava quindi di un linguaggio che si prestava ad un uso parodistico e caricaturale, rispondente ai meccanismi a cui a volte si rifanno, per esempio, i comici del nord d’italia quando vogliono ironizzare sulla figura dell’immigrato meridionale trasferitosi in una grande città dell’italia settentrionale. Si pensi ai divertenti personaggi interpretati da Diego Abantatuono o da Aldo, Giovanni e Giacomo.

Il lunfardo invece è un gergo legato a bassifondi e malavita, il cui lessico prende parole a prestito dal lombardo e dal piemontese, dal napoletano e dal genovese ; parlata gergale che ha anche una sua dignità letteraria, testimoniata dal suo frequente utilizzo in poesie, testi e racconti.

Ricordo che, molti anni fa, sfogliando un glossario di parole in lunfardo, casualmente trovai la definizione di « mina », parola usata per indicare la fidanzata. Per completezza d’informazione, devo anche dire che a volte quella parola ha anche un’accezione più stupidamente volgare. Ma in primo luogo significa ‘donna’, ‘fidanzata’, ‘ragazza’. Probabilmente oggi, nella nostra città, quel sostantivo non si usa più, ma nei quartieri popolari della Genova della mia adolescenza, se uno voleva sapere se avevi la fidanzata, ti chiedeva se avevi « la mina » oppure se eri « minato », usando quindi proprio la stessa parola che si era soliti usare nei barrios della capitale argentina. Del resto, in lunfardo per dire « Non ti do un bel niente » si dice : « No te doy un belin » e lo stupido « es un belinon », così come uno che è povero è uno « mishio » (dal genovese ‘miscio’ : senza soldi), mentre uno ricco è un « bacan », che in genovese vuol dire ‘padrone’.

Infine, terminate queste divagazioni linguistiche e allontanandoci dalle coste argentine, possiamo salpare in direzione dell’Africa. E, rimanendo in tema di navigazione atlantica o di marineria genovese, ricordare la suggestiva storia di Tristan da Cunha e di due marinai camoglini.

Nell’ottobre del 1892 un brigantino genovese, col carico in fiamme, naufragò nei pressi di un’isola, situata in mezzo all’Atlantico, in un tratto d’oceano a mezza via tra Africa e America, L’isola si chiama Tristan da Cunha, ed è considerata uno dei luoghi più distanti dal resto del mondo.

La nave Italia, di proprietà genovese, era partita il 26 agosto del 1892 da Greenock, un porto scozzese vicino a Glasgow, e lì aveva caricato carbone. Inizialmente, si prevedeva un viaggio per l’India e ritorno. La navigazione si svolse tranquilla per circa un mese. Ma il 28 settembre il nostromo notò un filo di fumo uscire da dentro la stiva. Si decise allora di tenere la situazione sotto controllo, anche se sembrava trattarsi di un falso allarme, poiché per tre giorni non ci furono altri problemi. Ma il primo ottobre apparve chiaro che il carico stava bruciando, anche se il fuoco doveva essersi sviluppato molto all’interno. Infatti, se ne vedeva il fumo, ma non si riusciva ad individuarlo nitidamente e ancora meno si poteva pensare di riuscirlo a domare. Si sarebbe potuto lanciare l’allarme ad altre navi, se solo ne fosse passata una vicino, ma l’Italia non incrociò nessun bastimento. Il comandante decise allora di mantenere la rotta che passava in prossimità di Tristan da Cunha, sperando di riuscire ad attraccare sull’isola.

Ma nella notte del 2 ottobre nella stiva del brigantino si sentì una forte detonazione. Nell’eventualità di una evacuazione d’urgenza furono messi in atto anche i preparativi per abbandonare la nave, appendendo le lance di salvataggio sulle fiancate e preparando i canotti. Si aprirono anche i boccaporti e si fecero delle aperture sul ponte, per facilitare l’ingresso dell’acqua di mare dentro la stiva. Ma il fuoco, col passare del tempo, divampava sempre di più. Così si continuò a gettare acqua sul fuoco fino al pomeriggio dell’indomani.

Anche il meteo non aiutava, il cielo completamente coperto e il tempo nebbioso rendevano difficile l’osservazione astronomica, fino a quando una schiarita, verso le nove di sera, permise di stimare la distanza che separava la nave da Tristan da Cunha, era un numero di leghe marine equivalente a circa quarantacinque o cinquanta chilometri.

L’indomani, nel pomeriggio, il brigantino si trovò nei pressi di Tristan da Cunha. Si calarono le lance, le si riempirono con delle provviste e poi l’intero equipaggio poté sbarcare su una piccola baia. Ci vollero giorni per raggiungere l’unico centro abitato dell’isola e poi ci vollero mesi prima che un bastimento fosse in grado di accogliere i marinai genovesi e portarli a casa.

Per tutti quei mesi l’equipaggio del brigantino fu ospite degli abitanti di Tristan da Cunha. Poi finalmente, il 26 gennaio del 1893, una goletta inglese li portò a Città del Capo. Da lì un vapore inglese li portò nelle Canarie e poi, nelle Canarie, si imbarcarono su un vapore dell’armatore genovese, proprietario del brigantino affondato, che finalmente li riportò a casa.

Ma, al momento della partenza da Tristan da Cunha per il Sudafrica, due marinai camoglini avevano deciso di non fare rientro e di restare lì per tutta la vita. Ed è per questo che oggi a Tristan da Cunha, isola di circa trecento anime, molti abitanti del posto portano i cognomi dei due marinai: Repetto Andrea e Lavarello Gaetano. E grazie a loro, anche in quell’isola sperduta in mezzo all’oceano c’è un po’ del levante della nostra provincia.

Come ho già avuto modo di dire, non è casuale che in alcuni dei luoghi citati in queste pagine esistano club di tifosi del Genoa : ce ne sono sicuramente, nel Principato di Monaco, a Buenos Aires, e nell’isola di San Pietro, in Sardegna.

E allora, chissà, forse anche nell’angolo del pianeta più lontano dai continenti, rispondente al nome di Tristan da Cunha, c’è qualche abitante che, in ragione delle radici britanniche e delle origini liguri, prova un sentimento d’amore, o quantomeno un po’ di simpatia, per la nostra squadra del cuore.

E mi piace pensare che magari anche in qualche casa dell’isola, a Edimburgo dei Sette Mari, accanto a quella della Union Jack, sventola una bandiera del Genoa, con l’anno di fondazione in bella vista. 1893: lo stesso anno in cui i due marinai camoglini decisero di restare per sempre in quell’isola in mezzo all’oceano.

Massimo Prati

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