Federsupporter – La discriminazione nel calcio: chiudere gli stadi o punire i colpevoli?

Ci si interroga sul se le misure sinora adottate siano state e siano quelle più eque ed efficaci per prevenire e reprimere gli episodi violenti


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Si ripetono, ormai ciclicamente, nel mondo del calcio episodi di discriminazione che hanno comportato e comportano la chiusura di settori o dell’intero stadio.

Episodi di cui sono autori, quasi sempre, gruppi ristretti, ma ben organizzati, le cui conseguenze ricadono, però, pesantemente, su migliaia di tifosi incolpevoli e sulle società di calcio.

Ci si interroga, quindi, sul se le misure sinora adottate siano state e siano quelle più eque ed efficaci per prevenire e reprimere gli episodi di cui trattasi.

Per rispondere o, almeno, tentare di rispondere a questo interrogativo, ritengo opportuno ed utile riepilogare il quadro normativo, sportivo e statale, esistente in materia ed esporre alcune considerazioni.

  1. Le norme calcistiche applicabili.

L’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva ( CGS ) della FIGC prevede che le società sono responsabili per i comportamenti discriminatori dei propri sostenitori.

Per comportamento discriminatorio deve intendersi “ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica”.

La discriminazione, ai fini sanzionatori, deve essere valutata alla luce della “ dimensione e percezione del fenomeno”.

Le sanzioni sono graduate in base alla gravità dei fatti ed all’eventuale recidiva, potendo andare da ammende economiche, alla chiusura di settori o dell’intero stadio per alcune gare, fino alla perdita della gara, alla penalizzazione di punti in classifica o, nei casi più estremi, all’esclusione dai campionati nazionali o competizioni estere.

Nell’art. 11 era, in origine, contemplata anche la così detta “ discriminazione territoriale”, poi espunta da tale articolo e che può essere sanzionata nell’ambito dell’art. 12 che prevede la responsabilità della società per cori, grida, ed ogni altra manifestazione, tra l’altro, che risulti offensiva per motivi di origine territoriale.

In questo caso, le sanzioni sono, per lo più, di natura economica, prevedendosi solo nei casi più gravi e di recidiva l’irrogazione di ulteriori sanzioni sopra elencate.

E’ prevista, inoltre, la possibilità di sospensione condizionale della sanzione, sottoponendo la società ad un periodo di prova della durata di un anno.

L’art. 13 prevede una serie di circostanze in base alle quali la responsabilità della società può essere esclusa o attenuata.

Queste circostanze consistono : nell’adozione e attuazione da parte della società di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i comportamenti vietati; nell’aver la società concretamente cooperato con le Forze dell’Ordine e le altre autorità preposte per l’adozione di misure atte a prevenire i suddetti comportamenti; nell’aver la società immediatamente agito per rimuovere disegni, scritte, emblemi o simili o per far cessare i cori e le altre manifestazioni di violenza o discriminazione ; nell’aver altri sostenitori chiaramente manifestato, nel corso della gara, con condotte espressione di correttezza sportiva, la propria dissociazione da tali comportamenti; nel non esserci stata da parte della società omessa o insufficiente prevenzione e vigilanza.

Qualora sussistano almeno tre delle richiamate circostanze, va esclusa la responsabilità della società, mentre tale responsabilità è solo attenuata ove ne sussistano meno di tre.

Il Tribunale Federale Nazionale, relativamente al fatto che l’esimente e le attenuanti di cui sopra sono testualmente riferite ai comportamenti contemplati nell’art. 12, ha sancito che “ il chiaro riferimento ad ipotesi espressamente previste all’art. 12 CGS- vedasi l’art. 13, comma 1 , lettere b e c CGS- fa propendere per l’applicazione delle esimenti anche agli illeciti di cui all’art. 11 CGS”.

D’altronde sarebbe del tutto illogico e, persino, paradossale che l’esimente o le attenuanti in parola discriminassero tra manifestazioni discriminatorie.

Peraltro, la circostanza dell’essersi gli spettatori manifestamente dissociati nel corso della gara da comportamenti discriminatori di altri spettatori, quale esimente o attenuante della responsabilità delle società, potrebbe suggerire a queste ultime, anche tenuto conto che la sanzionabilità deve avvenire in base alla dimensione e percezione del fenomeno, di avvalersi, mediante gli SLO, di gruppi organizzati di propri sostenitori, i quali, all’occorrenza, siano in grado e pronti ad esprimere la propria dissociazione.

E’ chiaro che la sanzionabilità, come sin qui descritta, di comportamenti discriminatori offre a gruppi, anche ristretti, ma ben organizzati, una potente arma di ricatto nei confronti delle società.

E’ chiaro, altresì, che la sanzionabilità affidata all’apprezzamento della dimensione e percezione dei comportamenti discriminatori e la labilità della linea di confine tra il mero insulto, pur becero e volgare, e l’atto ed il comportamento discriminatorio ha fatto e fa sì che vi sia una estrema incertezza del diritto e disparità di trattamento, essendo ogni decisione rimessa alla ampia e pressoché totale discrezionalità degli organi della giustizia sportiva.

Senza, poi, voler considerare l’estrema difficoltà, per non dire impossibilità, di pervenire ad una precisa ed inequivocabile definizione e delimitazione della così detta “discriminazione territoriale”, non espressamente prevista da alcuna normativa, né nazionale né internazionale, tanto più in un Paese, come il nostro, caratterizzato da storiche, ataviche rivalità, non solo comunali, ma, persino, di quartiere.

Una forma di discriminazione che, dunque, rappresenta un vero e proprio Vaso di Pandora.

Ma l’aspetto più iniquo insito in questa normativa è rappresentato dal fatto che essa finisce per attribuire alle società, non solo una responsabilità oggettiva, ma, addirittura, una responsabilità per obblighi impossibili (ad impossibilia nemo tenetur).

Non solo, ma, in questo modo, si trasla la suddetta responsabilità sui tifosi – la stragrande maggioranza di essi- del tutto incolpevoli, trasformando, di fatto, la chiusura di settori o dell’intero stadio in un Daspo privato nei loro confronti, assolutamente precluso alla giustizia sportiva (vedasi la sentenza del Tribunale Civile di Roma, Sezione X, n. 6004, del 22 marzo 2017 che ha riconosciuto il diritto dei tifosi incolpevoli di poter usufruire del proprio abbonamento in altri settori dello stadio diversi da quello chiuso a seguito di provvedimenti della giustizia sportiva o di essere rimborsati dalla società della quota dell’abbonamento non potuta usufruire).

Principio di responsabilità collettiva che prescinda da quello di responsabilità personale bollato, in sede di applicazione del così detto “Daspo collettivo” , come illegittimo dalla Cassazione ( vedasi sentenza n. 22266, Sezione III, del 3 febbraio/27 maggio 2016).

Cassazione che ha definito quel principio quale “ retaggio di trascorse e non illuminate esperienze storiche e giuridiche. …Secondo la logica del “tipo normativo d’autore (il Tatertyp) elaborato dalla dottrina nazionalsocialista tedesca.”

  1. Le norme statali applicabili

Atti e comportamenti discriminatori, come specificati all’art. 11 del CGS della FIGC, possono ricadere sotto l’applicazione della Legge n. 205 del 25 giugno 1993, come successivamente modificata, così detta “ Legge Mancino” .

Legge che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce con la reclusione sino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità, sull’odio razziale o etnico ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Punisce, altresì, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per i motivi di cui sopra.

Vieta, inoltre, ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per gli stessi motivi e punisce chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, per il solo fatto della partecipazione e dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e punisce coloro che promuovono o dirigono i suddetti enti o gruppi, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.

Con la sentenza di condanna per uno dei suddetti reati può essere comminato: l’obbligo di prestare un attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità; l’obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora predeterminata e di non uscirne prima di altra ora prefissata per un periodo non superiore ad un anno; la sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno, nonché divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere;il divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna e comunque per un periodo non inferiore a tre anni.

Per i reati in questione, in specie se commessi negli stadi, si può applicare l’arresto in flagranza differita e il processo per direttissima.

Alle sanzioni penali si aggiunge il Daspo, amministrativo o giudiziario, con obbligo di presentazione negli uffici di polizia territorialmente competenti in coincidenza delle partite di calcio.

  1. Considerazioni finali.

Alla luce di quanto precede sub 1 e 2, appare evidente, a mio avviso, che, se si vuole per davvero prevenire e reprimere efficacemente atti e comportamenti discriminatori negli stadi, si impone un cambio di passo.

Diversamente da quanto avvenuto fino ad oggi, tali prevenzione e repressione vanno affidate, più che a sanzioni sportive, a sanzioni penali e parapenali, quale, in quest’ultimo caso, il Daspo.

Sanzioni basate, cioè, sul principio di responsabilità personale e non, come quelle sportive, su una indistinta ed indiscriminata responsabilità collettiva, costituzionalmente illegittima e suscettibile di creare sentimenti di vittimismo in chi si sente ingiustamente colpito e, persino, di solidarietà con chi compie atti discriminatori.

Senza contare, poi, come già rilevato, che colpire nel mucchio offre a gruppi criminali la facile possibilità di ricatto nei confronti delle società, magari allo scopo di ottenere vantaggi ed utilità di vario tipo.

Elemento fondamentale ed essenziale affinchè si possano colpire chirurgicamente, mediante le sanzioni penali e parapenali che esistono, coloro i quali si macchiano di atti e comportamenti discriminatori è la possibilità e la capacità di avvalersi di moderni ed efficienti apparati di video sorveglianza a distanza negli stadi e nelle aree circostanti, nonchè di apparati di rilevamento di dati biometrici.

Apparati che, peraltro, sono imposti dalla legge come obbligo alle società, le quali si debbono, per l’appunto, dotare di strumenti che consentano la registrazione televisiva delle aree riservate al pubblico sia all’interno dell’impianto che delle sue immediate vicinanze.

Obbligo che, se violato, può comportare, oltre alla comminazione di sanzioni pecuniarie, anche la revoca della concessione per l’utilizzo dell’impianto.

Quanto, infine, alla possibilità che singoli calciatori o l’intera squadra possano lasciare il campo di propria iniziativa, a seguito di atti o comportamenti discriminatori, si tratta, a mio parere, di una eventualità assolutamente estemporanea, illegittima e nefasta.

Tali forme di abbandono non autorizzate conseguirebbero, infatti, la penalizzazione sportiva della società, con perdita della gara ed anche con penalizzazioni in classifica, costituendo una sorta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con grave alterazione della regolarità dei campionati, nonché darebbero ancor più potere di ricatto e di visibilità a gruppi, sebbene ristretti, di delinquenti che perseguono ben altri scopi che non quelli di sostenere la squadra del cuore.

Avv. Massimo Rossetti

Responsabile dell’Area Giuridico-Legale Federsupporter

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