ESCLUSIVA PIANETAGENOA – Emilio Caprile: «Io azzurro nel 1950, ho girato in tanti club. Ma il Genoa è rimasto sempre nel mio cuore»

La celebre ala racconta gli inizi in rossoblu, il Mondiale del 1950, i gol con Sestrese, Atalanta, Lazio, Legnano e Como. E rivela: «Avrei preferito giocare nel Grifone retrocesso in Serie B che vincere lo scudetto alla Juventus»


Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.

«Io ricordo quel mondiale del 1950 in Brasile e tante altre cose». Così Emilio Caprile inizia la sua lunga chiacchierata con Pianetagenoa1893.net nella sua abitazione sita nella zona di Albaro. La celebre ala sinistra, che giocò nella seconda metà degli anni Quaranta e durante gli anni Cinquanta, nato a Genova nel settembre di 86 anni fa, ha tante cose da raccontare. Dai suoi esordi con la mitica maglia rossoblù che si rammarica di aver indossato a livello di Serie A solo cinque volte all’inizio della carriera: era il Campionato 1945/1946 e nella sua “prima” assoluta subì una sconfitta umiliante dall’Inter per 1-9. Era il Genoa di Orlando Sain, Fosco Becattini, Federico Allasio e Mario Genta. Poi passò alla Sestrese in B nel 1946/1947, dove si mise in luce con 19 reti in 40 presenze; l’anno dopo approdò al Legnano, ancora tra i cadetti, dove segnò 13 reti in 34 partite. Nel 1948/1949 ritornò in serie A alla Juventus, collezionando 32 presenze e 5 reti. Dal 1949 al 1951 giocò nell’Atalanta: per lui 62 presenze e 16 gol. Nel 1951/1952 vinse il suo unico scudetto con la Juventus. L’ultima squadra in cui ha giocato nella massima serie fu la Lazio. Domenica 24 maggio 1953, alla sua penultima presenza in Serie A, giocò con la squadra biancoceleste, battuta 0-1 dalla Juventus, la prima partita di campionato disputata allo stadio “Olimpico” di Roma, che era stato inaugurato una settimana prima con l’incontro di Coppa Internazionale Italia-Ungheria 0-3. Caprile giocò la sua ultima partita in Serie A il 31 maggio 1953: la Lazio fu sconfitta 0-3 dalla Triestina al “Comunale” giuliano. La stagione successiva giocò nel Como in Serie B (3 reti in 21 presenze) e dal 1954 al 1958 (le prime tre stagioni nella cadetteria e l’ultima in Serie C) nel Legnano dove disputò complessivamente 128 presenze e realizzò 33 reti. L’ultima stagione della sua carriera fu in IV Serie nella Sammargheritese (2 reti in 14 presenze) nella stagione 1958/1959.

Caprile è anche uno dei più giovani esordienti in maglia azzurra: a 19 anni aveva giocato nella Nazionale Italiana, guidata per l’ultima volta da Vittorio Pozzo Commissario Unico delle vittoriose Coppe Rimet del 1934 in Italia e del 1938 in Francia, alle Olimpiadi del 1948 a Londra, dove batté 9-0 gli Stati Uniti, ma fu eliminata dalla Danimarca con un secco 5-3. Fu anche convocato nella tormentata spedizione del 1950 ai mondiali del Brasile, in cui l’Italia si presentò da detentrice della Coppa Rimet vinta nel 1938. È tra i cinque giocatori ancora in vita (allora giocava nell’Atalanta) che vi parteciparono: gli altri sono il portiere Lucidio Sentimenti IV (allora alla Lazio), il difensore Attilio Giovannini (Inter), l’attaccante Giampiero Boniperti (Juventus) e l’attaccante Egisto Pandolfini (Fiorentina). Caprile non giocò, poiché era chiuso nel suo ruolo di ala sinistra da Carapellese, ma a 64 anni di distanza la sua testimonianza (resa con invidiabile lucidità) su quel Mondiale sfortunato e sulle caratteristiche del calcio di allora è assolutamente significativa.

Cosa ricorda degli anni della guerra, in cui studiava da geometra ed era una promessa delle formazioni giovanili dell’allora Genova 1893, sotto la guida di «Luigin» Burlando?

«Ricordo che vincemmo un campionato “ragazzi”, battendo in finale la Roma con un complessivo 2-1 (1-0 a Genova e 1-1 a Roma). Io non ero titolare, avendo solamente 14 anni, e non giocai: il mio esordio con la gloriosa maglia del Grifone è avvenuto quando ne avevo 15. Burlando era severo: non era un tenero, ma un burbero. Avevamo tanto timore di lui: però, sapeva allenare molto bene, era un vero professionista. Ero molto giovane e fortunatamente non sono partito per il fronte: avendo mio padre grande invalido della Prima Guerra Mondiale, sarei stato comunque esentato dal servizio di leva».

Come ha iniziato a giocare a calcio?

«Io sono originario di Staglieno. C’era un posto vicino a dove stavo, dove c’era un campetto in cui giocavamo noi ragazzini. Fui avvicinato da un osservatore del Grifone che mi chiese: “Vuoi vegnì a giocà in tô Zena?” e così, dopo aver ricevuto il permesso da mia madre, iniziò la mia carriera. Mio padre, pur essendo genoano, non era un frequentatore dello stadio “Ferraris”, che mi era conseguentemente sconosciuto; ciò non tolse niente alla mia gioia di indossare la maglia rossoblù».

Ha qualche altro ricordo della sua gioventù?

«Ero un ragazzo felice e fortunato. Studiavo e giocavo al calcio: i miei genitori non mi hanno mai ostacolato in ciò che volevo fare. Avevo una sorella più giovane di me, deceduta parecchi anni fa».

Tutti i ragazzi che corrono dietro a un pallone vorrebbero esordire in serie A. Cosa si prova a farlo in una giornata in cui la propria squadra perde con otto reti di scarto (NDR: domenica 23 dicembre 1945: Internazionale-Genoa 9-1)?

«Giocammo all’Arena di Milano e pioveva a dirotto. Avevo come avversario Sergio Marchi, ex del Genoa: non ho toccato palla (NDR: racconta ridendo) o forse tre volte, non di più. Ricordo che in porta c’era Sain, “u’ tenaggia”. Andammo in pullman: nonostante fossimo nell’immediato dopoguerra, il viaggio non fu particolarmente disagevole. A causa della forte pioggia non volevo battere i calci d’angolo, perché non riuscivo a farlo. Chiamai Federico Allasio (NDR: papà della bellissima attrice Marisa) e gli dissi: “Fede, va’ a tirare i corner, perché non riesco a batterli col pallone bagnato”. I palloni dell’epoca erano molto pesanti e la pioggia rendeva ancora più complicato calciarli. Quella sconfitta pesante fu una lezione, ma anche uno stimolo per proseguire».

Alla fine della stagione 1945/1946 il Genoa, escluso dalla fase finale del Campionato, partecipa alla Coppa Alta Italia e l’allenatore in quell’ultimo scorcio che sarà la sua prima ed unica stagione rossoblù è William Garbutt. Cosa ricorda del “Mister” per antonomasia del calcio italiano?

«Era un flemmatico e aveva un grande aplomb: era un vero signore inglese. Una sua caratteristica: era molto tattico. Ne avevamo un grande rispetto: non per niente lo chiamavamo “mister”».

Dopo la stagione d’esordio Lei gioca nel campionato cadetto per due stagioni: prima nella Sestrese (19 reti in 40 presenze) e poi nel Legnano (13 reti in 34 presenze) in serie B. Quando capì che sarebbe diventato un calciatore professionista?

«Non ho un ricordo particolare sulla mia scelta di essere professionista. Nella Sestrese mi pagavano 6-7 mila lire al mese. Invece a Legnano si prendeva mensilmente attorno alle 10 mila lire e in più ci pagavano pranzi e cene: il pubblico mi amava molto».

E quando era a Legnano percepiva che qualcuno della Juventus la stava osservando?

«Sì. C’era Combi, l’ex portiere campione del mondo (NDR: nel 1934), che svolse le trattative con la dirigenza del Legnano».

Il suo trasferimento dalla Sestrese al Legnano ebbe una valutazione in denaro?

«Mio padre percepì un assegno di tre milioni. All’epoca non c’erano i procuratori: io ero ancora minorenne, poiché la maggiore età era fissata dalla legge a 21 anni. Quindi mio padre doveva firmare per me. Tutto avvenne presso una trattoria in via San Sebastiano a Genova».

E la Sestrese ricevette qualcosa?

«No, mi sembra proprio di no»

La Sestrese aveva un suo campo di gioco?

«Sì e c’era un tifo tremendo. Ho anche un altro ricordo riguardante i primi soldi che ho portato a casa».

Dica…

«C’era una partita (NDR: Genova 1893-Liguria 2-0 di domenica 25 marzo 1945) con in palio un trofeo (NDR: la Coppa Città di Genova, un torneo disputatosi tra il gennaio e il marzo del 1945, in cui una delle cinque squadre partecipanti era una rappresentativa della Marina Tedesca, si risolse all’ultima giornata, quando, vincendo per 2-0 lo scontro diretto, i rossoblù scavalcarono di un punto il Liguria in testa alla classifica), che fu vinto dal Genoa, il cui presidente, un certo Antonio Lorenzo, diede a ciascuno di noi 20mila lire in premio: mi sembrava di essere un re con quella cifra!».

Gli allenamenti dell’epoca com’erano strutturati?

«Al martedì bagni e massaggi; al mercoledì corsa sul campo; al giovedì la partitella; al venerdì ancora bagni e massaggi».

Ma non vi venivano i crampi con quel tipo di allenamento tutto sommato molto leggero?

«No perché si giocava molto più lentamente rispetto a oggi. Per il tipo gioco che praticavamo era sufficiente».

Sembra proprio un bel quadro d’epoca: vi allenavate poco e vi pagavano bene. C’è da pensare che le ragazze non vi disdegnassero…

«(NDR: ride di gusto) No proprio no. Le ragazze erano sempre interessate: a cominciare da quando ero giocavo nel Genoa».

Nell’estate del 1948 gioca le sue due partite in azzurro alle Olimpiadi di Londra. Quei due incontri segnano la fine della guida tecnica di Vittorio Pozzo. Cosa ricorda del leggendario Commissario Unico delle due Coppe Rimet degli anni Trenta?

«Era un grande uomo. Purtroppo masticava calcio fino a un certo punto, poiché giocava col metodo. Però aveva una dote fondamentale: portava un grande entusiasmo nello spogliatoio. Lui la metteva sempre sul patriottico: prima di entrare in campo a Londra ci faceva cantare una canzone “Mi sun alpin”. Ce l’aveva insegnata lui e la cantavamo tutti in coro».

Come ritiene abbia vissuto quel momento così doloroso per un uomo che si era precedentemente coperto di gloria?

«Non posso dirlo, non ho un ricordo particolare. L’unica cosa che rammento bene è che avevamo perso 5-3 dai danesi. Loro erano dilettanti e schieravano la vera nazionale: erano molto più forti di noi. Diversi di loro giocheranno poi in Italia, come il famoso Praest».

Il 1948/1949 è l’anno del grande salto alla Juventus, squadra nella quale occupa il posto da titolare nel ruolo di ala sinistra: in quel campionato segna 9 reti in 32 presenze. La prima sconfitta (1-2) con i bianconeri arriva alla III giornata in trasferta con il Genoa: cosa ricorda di quella partita giocata domenica 3 ottobre 1948?

«In quella partita ebbi un’occasione d’oro. Ero da solo davanti al portiere (NDR: Dante Piani) e riuscii a non segnare un gol che sarebbe stato difficile sbagliarlo. Diversi amici erano venuti a vedermi: abitavo da ragazzo in via Bobbio, molto vicino al “Ferraris”. Si attraversava “u puntin”, il ponte di legno sopra al Bisagno».

Non va bene neanche alla VII giornata, quando la Juventus, quattro settimane dopo, perde 0-2 contro la Sampdoria. Era più emozionato a giocare nella sua città contro i rossoblù o i blucerchiati?

«Posso dire che quando incontravo i blucerchiati cercavo sempre di metterli sotto (NDR: sorride). Io sono nato genoano, volevo sempre batterli. Ho un bel ricordo di quando giocai con l’Atalanta contro la Sampdoria: pareggiammo 2-2 con due miei gol. Io sono nato genoano e sono stato sempre anti-doriano. Per dirla tutta: quando il Genoa ha vinto il derby 3-0 (NDR: lo scorso 15 settembre) ha gioito urlando a più non posso».

I due derby (entrambi persi dalla Juventus, in casa 1-2 domenica 24 ottobre 1948 e in trasferta 1-3 domenica 13 febbraio 1949) sono gli ultimi giocati dal Grande Torino. Cosa ricorda di quella leggendaria formazione e qual era l’atmosfera delle ultime edizioni Derby della Mole con i granata nel ruolo di favoriti?

«Il Torino era proprio una grande squadra. C’era Mazzola, Loik, Gabetto: erano grandi giocatori di gran classe. In porta c’era il fratello di Manlio Bacigalupo, Valerio, con cui avevo giocato. Erano più bravi della Juve. Ricordo che giocai contro il loro terzino Ballarin: picchiava come un dannato e giocava attaccato a me. Sempre riguardo ai difensori c’era Blason (NDR: giocò nel dopoguerra prima nella Triestina e poi nell’Inter) che menava come un fabbro».

Ma che tipi di falli commettevano?

«Facevano entrate molto dure sulle gambe. Niente gomitate o manate in faccia come avviene adesso. Tutto sommato era, però, facile però giocarci contro. I terzini erano dei “bestioni” ma non erano veloci: bastava che li anticipassi, lanciavo il pallone lontano e gli davo 2-3 metri in pochi attimi. Adesso i difensori sono molto più agili e veloci: non ho vergogna a dire che se giocassi ora non toccherei palla».

Per due stagioni lascia la Juventus per andare a giocare nell’Atalanta: il primo anno disputò il suo miglior campionato con 14 reti in 32 partite. Come mai c’è stato quel trasferimento? Cosa ricorda del suo periodo bergamasco?

«Ero stato ceduto in prestito. Lo stadio di Bergamo era com’è adesso: c’era un tifo molto caldo e mi trovavo bene. All’Atalanta c’era un ambiente tranquillo: si chiedeva solo il massimo impegno contro le grandi squadre, contro cui il pubblico desiderava vincere. Ricordo che incontrai la mia futura moglie: aveva 17 anni, era una centometrista che sfiorò la partecipazione alle Olimpiadi di Roma. Siamo stati fidanzati per cinque anni prima di sposarci. L’avevo notata in tribuna: era una bella bionda che non passava inosservata. Chiesi ad alcuni amici di poterla conoscere: cominciammo a frequentarci e poi ci siamo fidanzati».

Sportivi e atleti nazionali: caratteristiche che hanno facilitato la vostra conoscenza?

«Sicuramente sì. Poi ci siamo sposati: abbiamo avuto subito un figlio. Poi ne abbiamo avuto un altro: entrambi sono avvocati e hanno uno studio in centro».

Nel 1950 lei è uno dei ventidue che partirono in nave, a causa del tragico ricordo della Tragedia di Superga, alla volta del Brasile, dove l’Italia deve difendere la Coppa Rimet conquistata dodici anni prima e mai più messa in palio. Cosa ricorda di quell’avventuroso viaggio?

«Fu tutto così breve: con la sconfitta per 3-2 contro la Svezia eravamo praticamente già fuori dal torneo. Partimmo da Napoli e impiegammo 20 giorni per arrivare in Brasile. Io non giocai neppure».

È vero che perdeste i palloni mentre vi allenavate sulla nave?

«(NDR: ride) E’ vero. Eravamo sulla tolda della Sises: come potevamo allenarci? Eravamo alloggiati nelle cabine superiori. Sotto c’erano gli emigranti, ma praticamente non li vedemmo poiché erano nella parte più basse del piroscafo».

Il fatto che due dei quattro commissari tecnici fossero il presidente Ferruccio Novo e il direttore tecnico Roberto Copernico del Grande Torino come pesava sull’umore dell’ambiente azzurro?

«No, non si respirava un’aria pesante, anche se erano con noi due componenti del Grande Torino. Il ricordo della tragedia di Superga, dove si schiantò l’aereo che trasportava la squadra granata, dopo un anno era ancora vivo e si decise di partire in nave».

In un calcio che non prevede sostituzioni lei è chiuso dal capitano degli Azzurri Riccardo Carapellese, tanto che dopo la sconfitta per 2-3 nella decisiva partita inaugurale con gli svedesi è uno dei quattro giocatori non schierati contro gli scandinavi che non beneficiano del turn-over nel successivo incontro vinto per 2-0 con il Paraguay, che chiude la breve spedizione dei campioni del mondo uscenti in Brasile. Come siete stati accolti in una terra in cui era ancor vivo il ricordo della tournée del Grande Torino di due anni prima?

«Fummo accolti bene. Alloggiavamo in un grande albergo di San Paolo. Non c’era una clausura prima delle gare: c’era libertà. Anzi, posso dire che praticamente arrivammo alla gara contro la Svezia senza aver sostenuto un allenamento».

È vero che c’era una compagnia di ballerine argentine nel vostro hotel?

«(NDR: si ferma un istante e si mette a ridere) Sì, è vero».

Eravate abituati allora a pernottare in grandi alberghi con le squadre di club?

«Sì, soprattutto con le grandi squadre. Ad esempio all’epoca a Genova c’era il Bristol dove alloggiavano. Spesso però per le trasferte brevi, come ad esempio tra Torino e Genova, si partiva al mattino in pullman».

Gli svedesi, pur senza i professionisti Gunnar Grén, Niels Liedholm e Gunnar Nordhal, erano davvero più forti o ci furono errori tattici determinanti a favorirli?

«La Svezia aveva dei buoni giocatori come Jeppsson, che sarebbe arrivato all’Atalanta [NDR: nella stagione 1951/1952, quando Caprile era tornato alla Juventus] e sarebbe poi passato al Napoli: era un gran giocatore e possedeva un tiro micidiale. Ci rifilò due “pappine” e ci ha praticamente spedito a casa. In più si erano arrivati pronti alla partita contro di noi. Purtroppo noi, provati dal lungo viaggio in nave, non avevamo preparazione atletica».

Nel 1951/1952 torna alla Juventus per una stagione, quella che permette ai bianconeri l’aggancio al Genoa in testa all’Albo d’Oro del calcio italiano. In quel vittorioso Campionato si deve accontentare delle «briciole» lasciatele da Karl Aage Praest, facendosi, comunque, trovare pronto con 2 reti in 5 presenze. Ci può descrivere le caratteristiche tecniche della forte ala sinistra danese?

«Era un grande giocatore, anche se un po’ lento: non avevo nulla da eccepire sul fatto di essere la sua riserva. Era molto alto e aveva un dribbling secco che lo rendeva molto pericoloso, oltre a saper crossare in modo preciso. All’epoca le ali dovevano arrivare sulla linea di fondo e crossare il pallone all’indietro fuori dalla portata del portiere».

A proposito: all’epoca come si festeggiavano gli scudetti?

«Non c’erano festeggiamenti particolari, come il pullman scoperto con la folla attorno. Fumo invitati dall’Avvocato Agnelli a Villar Perosa per una cena di gala».

Quali sono stati i giocatori bianconeri che più l’hanno impressionata?

«Giampiero Boniperti era un dritto, che sapeva imporsi, oltre ad essere un giocatore di classe. “Carletto” Parola era un signore nel vero senso del termine, così come Pietro Rava: il mitico terzino sinistro vincitore dell’oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936 e della Coppa Rimet 1938 era un sanguigno e sapeva marcare molto bene. Ho ottimi ricordi anche di John Hansen ed Ermes Muccinelli».

Che tipo di ambiente era quello della Vecchia Signora di allora?

«Era un ambiente molto affettato, per niente facile e molto selettivo. Io non posso lamentarmi, poiché mi hanno trattato sempre bene. Eravamo pagati bene: 90mila lire di stipendio al mese più una serie di premi che aumentavano di molto la paga base. Anzi all’epoca era previsto dalla Federazione che lo stipendio fosse fissato in base al numero di abitanti della città in cui giocava la squadra di appartenenza del giocatore».

Che tipo era l’Avvocato Agnelli?

«Era una persona autorevole, di cui subivi il fascino. Mi ha regalato nel 1952, in occasione dello scudetto, una bambola con i colori bianconeri che ho ancora in casa».

E poi nel 1952/1953 giocò la sua ultima stagione in Serie A con la maglia della Lazio, poi va al Como prima di tornare ai lilla del Legnano…

«Andai alla Lazio, poiché, essendoci alla Juventus Praest, non giocavo quasi mai. Non mi sono trovato molto bene. Poi nella stagione successiva sono passato al Como in Serie B, che lottava per la promozione: l’anno dopo sono ritornato al Legnano. In quel club mi trovavo a mio agio e fu allora che mi sposai».

Come mai a soli venticinque anni un giocatore di indubbio valore quale era Lei ha deciso di lasciare il massimo palcoscenico calcistico italiano?

«Mi ero accontentato di ciò che avevo fatto fino ad allora, non avevo avuto mai grandi pretese. Prendevo ciò che passava il convento. A Legnano e a Como percepivi stipendi molto simili a quelli della serie A, però subivi meno pressioni e avevi una vita tranquilla. Erano città ricche e operose attraverso le allora fiorenti industrie della seta e del tessile. Ho concluso la mia carriera di giocatore nella Sammargheritese: il presidente era direttore della Gazzetta del Lunedì».

All’inizio della sua carriera c’erano squadre «metodiste» e formazioni «sistemiste»: nel primo caso era marcato dal mediano destro, nel secondo dal terzino destro? Per Lei non c’erano differenze oppure si trovava meglio in un caso e peggio nell’altro?

«Mi trovavo meglio col sistema. Riuscivo a superare il terzino con la palla lunga e puntavo in porta».

Ricorda qualche aneddoto nei duelli con il suo marcatore?

«Non ho ricordi particolari, tranne Ballarin che sapeva marcare molto bene. Non era facile sfuggirgli, era veloce».

Dovesse descriversi come calciatore cosa direbbe di sé?

«Ero un buon giocatore, veloce e buon colpitore di testa, perché sapevo prendere d’anticipo il marcatore nel salto. Possedevo anche un buon tiro di sinistro, non fortissimo, ma preciso, e sapevo effettuare dei traversoni calibrati».

Cosa ha fatto dopo aver appeso le scarpette al chiodo?

«Il mio papà aveva una ditta abbastanza importante di autotrasporti che aveva l’appalto per trasportare le bobine di carta per tutti i giornali genovesi: Il Secolo XIX, Il Lavoro, Corriere Mercantile, Gazzetta del Lunedì e l’Avvisatore Marittimo. Ho avuto anche l’onore di conoscere Sandro Pertini quando era direttore de Il Lavoro: persona simpaticissima e di grande carisma».

Non l’è pesato passare da una vita agiata di calciatore a quella più faticosa di imprenditore?

«No, mi sono subito adattato. E poi non sapevo fare altro: sono diplomato geometra, ma non ho mai esercitato la professione. Non saprei fare neppure una “o” col bicchiere. Tramite Silvio Piola avevo preso anche il patentino di allenatore, ma non ho mai allenato una squadra: anzi, per meglio dire, non mi andava».

Ci dica una cosa che l’affascinava e una che non le piaceva del calcio quando era giocatore e poi faccia la stessa operazione con il calcio dei nostri giorni.

«Sicuramente una cosa affascinante era quella di guadagnare bene. Una cosa che non mi piaceva di allora? Non saprei dire. Venendo ad oggi, mi piace molto la velocità del gioco. Invece non mi piace che si scenda in campo quasi tutti giorni: non capisco inoltre perché occorra giocare a mezzogiorno e mezza, perché le partite si dovrebbero disputare sempre alle 14.30 o alle 15. Ai miei tempi raramente abbiamo giocato di sera: accadeva solo quando andavamo all’estero, come ad esempio in Francia, in Svizzera o in Spagna dove avevano l’impianto di illuminazione. In Italia gli stadi non erano attrezzati».

Secondo lei quali sono stati il più grande calciatore di quando era in attività, il più grande di questo momento, il più grande di sempre e l’ala sinistra più forte di tutti i tempi?

«Quando io giocavo il più grande ce n’erano tanti come Ghiggia, ala destra sublime, e Schiaffino. Ora c’è Messi che è un fenomeno. Il più grande giocatore di tutti i tempi è Pelè: sapeva essere un campione anche fuori dal rettangolo di gioco. Invece l’ala sinistra più forte di sempre è Orsi».

Le chiediamo un pronostico: chi vincerà la Coppa del Mondo 2014 e come si comporterà la Nazionale Italiana?

«Credo che la Nazionale non farà molta strada, anche a causa delle scelte sbagliate del ct Prandelli. Ad esempio, è stato un grave errore quello di non convocare Gilardino: è un ragazzo serio, non esiste nel nostro campionato un attaccante di valore come lui che abbia segnato tanti gol a raffica. Balotelli non mi convince. Io vedo bene l’Inghilterra come favorita per la vittoria finale».

Chi le piacerebbe al posto di Prandelli?

«Da genoano dico Giampiero Gasperini. Non mi dispiacerebbe, però, neanche “Max” Allegri».

Un vecchio proverbio dice: “Il primo amore non si scorda mai!”. Lei è nato a Genova il 30 settembre 1928 ed ha giocato la sua prima stagione nel Genoa, la squadra per cui fa il tifo. Non ha mai avuto la possibilità di tornare a vestire la casacca rossoblù “a quarti”?

«Sarei voluto ritornare al Genoa a giocare, ma purtroppo la mia carriera mi ha portato altrove. Mi sarebbe proprio tanto piaciuto giocare qualche altra stagione con la maglia rossoblù oltre a quella in cui avevo iniziato a giocare a 17 anni. Nel 1951/1952 ci andai vicino: non sono un ipocrita se dico che avrei preferito giocare nel Genoa neoretrocesso in Serie B che tornare alla Juventus, con cui avrei in quella stagione vinto il mio unico scudetto».

Ora che segue il Grifone da pensionato cosa pensa dell’ultimo quarto di secolo della storia rossoblù, segnato dalle imprese di grandi campioni che hanno portato il Genoa in Europa nel 1991/1992 e nel 2009/2010, ma anche dalla più lunga lontananza dalla massima serie, prolungatasi per dodici stagioni?

«Cercando di dimenticare le amarezze ricevute negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di questo, posso dire che il Genoa ha avuto grandi campioni negli anni ’90 come “Pato” Aguilera e Skuhravy e recentemente come Criscito, Thiago Motta e Milito. Ma lasciatemi dire per me chi è il più grande giocatore che abbia giocato con la maglia rossoblù…».

Dica pure…

«Juán Carlos Verdeal, un calciatore dalla tecnica sopraffina».

Marco Liguori

Stefano Massa

RIPRODUZIONE DELL’ARTICOLO CONSENTITA SOLO PER ESTRATTO PREVIA CITAZIONE DELLA FONTE: WWW.PIANETAGENOA1893.NET

Accetta i marketing-cookies per visualizzare questo contenuto.